Napoli – Un altro colpo durissimo al cartello camorristico Reale-Rinaldi-Formicola doipo la stangata della scorsa settimana alla cosca dei Reale del rione Pazzigno.
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Processo dopo processo, il clan esce sempre più indebolito dalle inchieste della magistratura, e l’ultima sentenza della Terza Sezione Penale – Collegio B, presieduta dal giudice Primavera, infligge una nuova batosta: otto condanne per un totale di oltre cento anni di carcere.
A Mario Reale e Antonio Marigliano, ritenuti i capizona dell’organizzazione, sono stati comminati rispettivamente 15 anni e 15 anni e 6 mesi di reclusione. Altri cinque affiliati – Pasquale Esposito, Vittorio Folliero, Giuseppe Savino, Vincenzo Silenzio e Domenico Gianniello – hanno ricevuto 10 anni di carcere ciascuno, mentre Giuseppe Milo è stato condannato a 10 anni e 6 mesi.
L’unica assoluzione, con formula piena, è quella di Vincenzo Vigorito, difeso dagli avvocati Leopoldo Perone e Salvatore Impradice, scagionato per “non aver commesso il fatto”.
Il processo,,come ha anticipato Il Roma, celebrato con rito ordinario, nasce dal maxi-blitz del maggio 2021, quando 37 arresticolpirono i clan Reale-Rinaldi, Formicola e Silenzio. Gli indagati erano accusati di associazione mafiosa, tentati omicidi, estorsioni e detenzione illegale di armi, in un contesto di faida con il clan Mazzarella.
Le indagini della Squadra Mobile, supportate da intercettazioni telefoniche e ambientali, nonché dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, hanno ricostruito anni di scontri armati per il controllo del territorio, in particolare a San Giovanni a Teduccio, ma anche in altre zone come piazza Mercato, Porta Nolana, San Giorgio a Cremano e Portici.
Tra le prove più schiaccianti, le numerose “stese” (sparatorie intimidatorie), alcuni attacchi con kalashnikov AK-47 e i tentati omicidi di esponenti rivali, tra cui Carmine Improta, Alfonso Mazzarella e Vincenzo Cozzolino, boss del clan avversario.
Cuore operativo del clan era il cosiddetto “rione della 46”, bunker degli Rinaldi, dove gli affiliati si tatuavano il numero “46” come simbolo di appartenenza. Ma l’indagine ha portato alla luce anche un altro aspetto: l’ostentazione del potere sui social network, con post e video che celebravano i legami camorristici. Uno sfoggio di forza che si è però trasformato in una traccia decisiva per gli inquirenti.
(nella foto il boss Mario Reale)
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