Nei giorni successivi alla perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sono emerse nuove rivelazioni sulle preoccupazioni degli agenti penitenziari coinvolti nell’operazione, durante la quale circa 300 poliziotti avrebbero picchiato i detenuti del reparto Nilo.
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Fonti indicano che alcuni degli agenti temevano che le telecamere di sorveglianza avessero ripreso le violenze, tanto da spingere richieste di manomissione del sistema di videosorveglianza per cancellare le prove relative alla data in questione.
Durante un’udienza del maxi-processo celebrato nell’aula bunker del carcere, il sovrintendente Domenico Migliaccio, addetto alla sala regia del reparto Nilo al tempo dei fatti e oggi in servizio a Poggioreale, ha confermato le pressioni subite per alterare le registrazioni.
Migliaccio ha riferito che il 10 aprile, quattro giorni dopo la perquisizione, un collega presentatosi come ispettore – probabilmente Raffaele Piccolo, tra gli imputati – gli chiese se fosse possibile manomettere i DVR contenenti le immagini. Gli fu inoltre comunicato che un altro agente, Domenico Panice, avrebbe dovuto distruggere i video utilizzando un liquido, «mi sembra candeggina». Migliaccio affermò di essersi rifiutato, minacciando di denunciare chiunque avesse tentato di compiere tali azioni.
Il testimone ha aggiunto di aver immediatamente informato la commissaria Costanzo, la quale reagì con estrema preoccupazione, esortandolo a «non permettersi di fare una cosa del genere». Un altro dettaglio significativo riguarda le dichiarazioni di Franco Pucino, collega di Migliaccio addetto alla sala regia, che gli confidò di aver ricevuto l’ordine di spegnere le telecamere prima della perquisizione. Tuttavia, Pucino riuscì solo a disattivare i monitor, mentre le registrazioni proseguirono senza interruzioni.
Le rivelazioni di Migliaccio gettano luce sulle dinamiche occorse in un contesto già segnato da tensioni, alimentando interrogativi sulla condotta delle forze dell’ordine all’interno del sistema carcerario. Il caso, oltre a coinvolgere numerosi agenti, solleva dubbi sulla trasparenza delle istituzioni e sulla tutela dei diritti dei detenuti, riaccendendo il dibattito sul rispetto dei protocolli durante le operazioni penitenziarie.
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