Napoli — Dopo quasi un quarto di secolo, arriva un verdetto storico per uno dei delitti più efferati legati alla camorra napoletana.
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Il Giudice dell’Udienza Preliminare, Fabio Provvisier ha condannato a 30 anni di carcere Raffaele D’Alterio, Luigi De Cristofaro e il boss pentito Salvatore Simioli, riconosciuti colpevoli del rapimento, dell’omicidio e della distruzione del cadavere di Giulio Giaccio, 26 anni, ucciso la notte del 30 luglio 2000 a Napoli.
La vittima, prelevata da un commando di falsi poliziotti, fu freddata con un colpo alla nuca e poi dissolta nell’acido, in un macabro tentativo di cancellarne ogni traccia.
La tragedia ebbe inizio nel quartiere di Pianura, roccaforte del clan Polverino. Giulio Giaccio, in compagnia di un amico, fu fermato da uomini spacciatisi per agenti di Polizia. Malgrado le sue proteste («Non mi chiamo Salvatore!»), i killer lo trascinarono via, convinti di aver trovato l’amante “scomodo” della sorella del camorrista Salvatore Cammarota, già condannato a 30 anni.
L’amico, testimone chiave, denunciò subito il sequestro, ma per ricostruire la verità servirono anni di indagini e le rivelazioni di Simioli, collaboratore di giustizia dal 2008.
Proprio le confessioni di Simioli hanno permesso di ricostruire l’agguato: dopo l’esecuzione, il corpo di Giaccio fu sciolto in acido e i resti dispersi a Contrada Spadari, area sotto il controllo del clan. Oltre ai tre condannati, facevano parte del commando anche Carlo Nappi (30 anni) e Roberto Perrone (14 anni), già giudicati in precedenza.
Il Gup ha riconosciuto ai familiari della vittima un risarcimento provvisorio di 200mila euro, ma ha escluso l’aggravante mafiosa richiesta dai pm antimafia Mariella Di Mauro e Giuseppe Visone, secondo i quali il delitto avrebbe rafforzato il potere del Polverino. Una decisione che ha acceso il dibattito, mentre la famiglia Giaccio continua a chiedere che Giulio sia riconosciuto come «vittima innocente della criminalità organizzata».
“Giustizia è fatta”, commenta l’avvocato Alessandro Motta, legale della famiglia. “I parenti attendono il giudicato per valutare i prossimi passi, ma oggi hanno un segnale di verità”. Una verità arrivata dopo 25 anni, in un caso che riapre le ferite di una Napoli piegata dalla violenza camorristica, ma che non smette di cercare riscatto.
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