L’imprenditore 65enne L. F., originario di Pietrelcina e residente al nord Italia da 40 anni, è stato assolto dalle accuse di appropriazione indebita e truffa ai danni dell’INPS. La sentenza è stata emessa dal giudice monocratico Valeria Cisti del tribunale penale di Como, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
L. F., titolare di un’azienda edile, era finito sotto processo con l’accusa di essersi appropriato delle somme erogate dall’INPS per indennità di malattia e assegni familiari destinati ai suoi dipendenti. Secondo l’accusa, dal giugno 2016 al luglio 2017, l’imprenditore avrebbe trattenuto queste somme pur indicandole nelle buste paga dei lavoratori.
L’imputato, difeso dall’avvocato Massimo Viscusi del Foro di Benevento, si è sempre dichiarato innocente. Durante l’udienza del 5 dicembre scorso, il pubblico ministero aveva richiesto una modifica dell’imputazione ai sensi dell’articolo 516 del codice di procedura penale, introducendo l’accusa di truffa ai danni dello Stato, poiché, a suo dire, erano emersi fatti nuovi durante l’istruttoria.
La difesa ha contestato questa richiesta, sostenendo che la modifica violava il diritto a un giusto processo e le garanzie processuali dell’imputato, impedendogli di elaborare una strategia difensiva adeguata. Inoltre, l’avvocato Viscusi ha sottolineato che, in caso di contestazione di appropriazione indebita e truffa, il procedimento avrebbe dovuto passare per l’udienza preliminare, in quanto il reato di appropriazione indebita non è più procedibile a citazione diretta dal 2019.
La difesa ha anche evidenziato l’assenza di riscontri alle dichiarazioni dei denuncianti e la presenza di congetture e incongruenze, sostenendo che il caso poteva al massimo configurarsi come un inadempimento contrattuale o mancato assolvimento degli obblighi fiscali, non come appropriazione indebita.
All’udienza del 10 giugno, il giudice Cisti ha accolto le eccezioni difensive, sottolineando la mancata previsione di fatti nuovi e la conseguente violazione del diritto di difesa. Dopo la requisitoria del pubblico ministero e l’arringa della difesa, il giudice ha assolto L. F., riconoscendo che il fatto non costituisce reato. La procura aveva richiesto una condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione.
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