Raffaele Egheben, un ex detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere , ha rilasciato una toccante testimonianza al maxiprocesso sui pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020, in pieno lockdown per il Covid. Le sue parole descrivono un’agghiacciante sequenza di violenze subite:
“Era meglio che le guardie il 6 aprile mi uccidevano, sono stato picchiato per ore, non finiva mai.”
Egheben ha raccontato di essere stato prelevato dalla sua cella da un agente di sua conoscenza, Pasquale De Filippo, e da altri 4-5 agenti con e senza casco. Lo hanno picchiato e poi portato nell’area socialità, dove, insieme ad altri detenuti, è stato costretto a inginocchiarsi e picchiato con il manganello.
Un altro agente, Crocco, lo ha poi preso e portato in una stanza vuota, dove lo ha colpito con un pugno da dietro. Sembrava quasi che volesse salvarlo. In questa stanza c’era solo un altro detenuto, Tasseri, ferito e a terra.
La Commissaria ha ordinato ad un agente di portare Egheben giù, e lungo il corridoio è stato nuovamente picchiato da altri agenti. In una stanza vicino all’ufficio di sorveglianza, un medico lo ha visitato, dicendo che stava bene. Le percosse però non sono finite: calci, manganellate e ulteriori botte lo hanno accompagnato fino al Reparto Danubio.
Un agente con i baffi, Maurizio Soma, ha preso un secchio con la spazzatura e glielo ha buttato addosso, dandogli due calci al sedere, dicendo: “Questa è la corona che ti mettiamo in testa”.
La testimonianza di Egheben è una drammatica denuncia delle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Le sue parole sono un atto di accusa contro i responsabili di quelle atrocità e una richiesta di giustizia per le vittime.
Il processo è ancora in corso e si spera che la verità possa emergere in tutta la sua chiarezza. Le 105 persone imputate, tra cui poliziotti carcerari, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e medici dell’Asl di Caserta, dovranno rispondere delle loro azioni.
La storia di Egheben è un monito contro ogni forma di brutalità e sopruso. È un invito a non dimenticare le sofferenze di chi ha subito ingiustizie e a lottare per un sistema carcerario più umano e rispettoso dei diritti umani.
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