Il carcere è quello di Bollate, a Milano.
“Benvenuti in galera”, il documentario di Michele Rho, arriva al Cinema a Milano in prima visione alla Cineteca Milano Arlecchino (in via S. Pietro All’Orto, 9) questa sera – giovedì 11 gennaio – alle ore 21.
Con la produzione di WeRock, dopo l’anteprima al Filmmaker Festival 2023, il film ora inizia il suo viaggio in sala, dove rimarrà ancora in programmazione alla Cineteca Arlecchino, prima di girare gli istituti circondariali, dove sarà proiettato per i detenuti.
Il tema della carcerazione e della condizione del detenuto è sempre di estrema attualità, ma spesso si preferisce non affrontarlo oppure parlarne con un certo grado di retorica: il carcere è scomodo e fa paura. Raccontando il progetto di In Galera, il primo ristorante al mondo aperto dentro un istituto di pena, il film documentario ci porta dentro un carcere cercando di abbattere queste paure e diffidenze attraverso le storie di chi sta cercando di riprendere in mano la propria vita lavorando.
Per i ragazzi protagonisti il lavoro significa redenzione, vita e futuro: Davide, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel sono uomini che hanno commesso errori e che stanno cercando una seconda possibilità dalla vita, molti di loro attraverso il lavoro. Ideato e supervisionato da Silvia Polleri, questo ristorante di alta classe (e progetto sociale) è aperto a tutti: i camerieri indossano divise, e lo chef ha studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi. Ma il ristorante non è solo un luogo di lavoro per i detenuti, è anche un modo innovativo per la comunità esterna di entrare in contatto con la realtà carceraria in modo nuovo e diverso: un ponte tra il carcere e il mondo esterno.
“La parola ‘Benvenuti’ è un benvenuto per tutti voi per conoscere meglio e non avere paura o diffidenza quando vedete un detenuto o entrate un istituto di pena. – racconta il regista Michele Rho – il documentario condivide la straordinaria storia di In Galera, gestito interamente dai detenuti sotto la supervisione di una donna tenace, mia madre: ma il mio obiettivo non era raccontare solo la storia di un ristorante eccezionale né, naturalmente, la storia di mia madre. Così, il ristorante stesso è diventato una lente speciale attraverso cui esplorare il mondo del carcere, tema importante su cui confrontarci. Mi sono avvicinato al progetto chiedendomi come i detenuti percepiscano il mondo esterno, come si sentano, che cosa provino. Pensandoli dunque come esseri umani, al di là della colpa che hanno commesso, sempre e comunque nel rispetto e attenzione delle vittime delle loro azioni. A me interessano le storie. Ed è proprio il lavoro che diventa la chiave di tutto, per evitare il carcere, per essere accettati nuovamente dalla propria famiglia ed evitare di tornare alle attività criminali. Durante questo percorso ho incontrato moltissima umanità e ho capito quanto poco conoscevo e comprendevo il carcere e la vita dentro il carcere, perché la osservavo da fuori. È un piccolo cambio di prospettiva, ma determinante. Il documentario ha un tono agrodolce e volutamente non vuole ‘giocare’ con il dramma. I detenuti sono esseri umani e la leggerezza rende la punizione più sopportabile”.
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