In Italia esiste un problema di presa in carico del paziente con decadimento cognitivo, la cui gestione, il più delle volte, è demandata prevalentemente al familiare (o caregiver), che però non è supportato da una solida rete e si sente smarrito nel dover affrontare, spesso da solo, situazioni complesse. Questo anche perché di fatto, nel nostro Paese, manca una reale integrazione territorio/ospedale. Il tema è stato affrontato nel corso di una sessione che si è svolta in occasione del 62esimo Congresso Nazionale delle Scienze Neurologiche Ospedaliere (SNO), in programma a Firenze fino a domani, presso il Palazzo degli Affari.
A parlarne è stata la dottoressa Carla Zanferrari, direttrice della UOC di Neurologia – Stroke Unit presso l’ASST Melegnano Martesana (Milano). “Di fatto è il caregiver ad avere su di sé un sempre maggiore carico della malattia e a sentirsi solo nella gestione del familiare- ha detto- Al di là delle visite periodiche a cui il paziente con demenza si sottopone, infatti, il caregiver non ha punti di riferimento che lo supportino nella quotidianità, che è estremamente faticosa”.
Nel corso dello sviluppo della patologia, quindi, diventa sempre più importante la rete attorno al paziente “ma soprattutto al familiare o caregiver. Per queste patologie- ha infatti sottolineato la dottoressa Zanferrari- è ugualmente importante un sostegno sugli aspetti psicosociali oltre che su quelli sanitari in senso stretto”.
Il primo punto su cui intervenire, secondo la neurologa, è quindi facilitare l’accessibilità. “Per esempio noi abbiamo un’email dedicata, che raccoglie tutte le richieste dei familiari, a cui è preposta un’infermiera che si fa carico del bisogno e, a seconda dei casi, si attiva, per esempio mettendo in contatto il familiare con il medico in relazione al bisogno dichiarato (per esempio adeguamento posologico o anticipazione di una visita di controllo)”.
Sempre al fine di favorire e accelerare i contatti, facilitando sia il sanitario sia il familiare, un ruolo fondamentale potrebbe essere svolto dalla telemedicina o dall’uso di strumenti informatici. “Grazie alle piattaforme informatizzate, per esempio- ha aggiunto- è agevolata la condivisione di cartelle tra medico di medicina generale e CDCD (Centro per il Decadimento Cognitivo e le Demenze). Il medico, in questo modo, si sente supportato in una scelta terapeutica e non ha più la necessità di indirizzare ogni volta il paziente all’ambulatorio specialistico”.
Un secondo punto “fondamentale” su cui intervenire è attivare dei corsi di formazione per i caregiver, per “educarli e dotarli di strumenti utili alla relazione con il familiare, finalizzati a ridurre o contenere i disturbi del comportamento. La persona con decadimento cognitivo- ha spiegato ancora la dottoressa Zanferrari- ha una percezione alterata, o meglio, non ha una chiave di lettura razionale di ciò che la circonda, ma prevalentemente emozionale.
Penso per esempio alla ‘sindrome del tramonto’ (‘sundowning syndrome’): quando avviene un cambiamento nell’illuminazione di un ambiente e si passa da una buona luce ad una scarsa, il paziente con demenza può diventare ancora più confuso, irrequieto e ansioso, perché è come se camminasse nella nebbia”. A volte semplici interventi ambientali, per esempio una buona illuminazione della casa o delle stanze, possono essere sufficienti al contenimento dell’ansia.
“Altre volte i familiari ci raccontano che il paziente vuole vestirsi da solo- ha fatto sapere l’esperta- ma si mette il golfino sotto la camicia oppure i calzini di due diversi colori e ci chiedono se sia o meno giusto correggerlo. Allora bisogna dare al caregiver strumenti di gestione e di relazione con il paziente, perché se il caregiver è rilassato e sa come gestire la situazione trasferirà tranquillità al paziente”.
Un altro aspetto da sottolineare, sempre secondo l’esperta, è la mancanza di riferimenti di supporto territoriali. “Per esempio è importante fare una mappatura dei centri diurni presenti sul territorio e collaborare con le associazioni dei familiari- ha fatto sapere la dottoressa Zanferrari- che sono fondamentali perché da un lato ci trasferiscono i bisogni dei pazienti e dall’altro ci supportano in iniziative di sensibilizzazione e di collaborazione anche con i comuni”.
Una criticità importante è quella della gestione del paziente con decadimento cognitivo in ospedale. Chiara sull’argomento la posizione dell’esperta: “L’ospedalizzazione, se non strettamente necessaria, fa sempre male ad un paziente con decadimento cognitivo. Sarebbe poi fondamentale che almeno un familiare gli fosse vicino- ha detto la dottoressa Zanferrari- perché altrimenti si rende spesso necessaria una sedazione farmacologica e in alcuni casi, estremi, anche una contenzione fisica per proteggere il paziente da danni a sé o agli altri”.
Negli ultimi anni, intanto, sono stati diversi i casi di pazienti affetti da problemi cognitivi o demenza che si allontanati dagli ospedali o dai pronto soccorso, alcuni purtroppo con esiti tragici. Per questo le associazioni di familiari hanno avanzato alle istituzioni una serie di proposte, tra cui riconoscere a piccoli localizzatori Gps il ruolo di ‘salvavita’ da utilizzare negli ospedali per monitorare e tracciare il paziente che lo necessita.
“Si tratta di strumenti utili, ma anche se il paziente indossa un braccialetto che permette di geolocalizzarlo, potrebbe comunque essere troppo tardi- ha evidenziato la neurologa- I medici e il personale sanitario che lavorano in pronto soccorso hanno dei ritmi serratissimi e si ritrovano a dover gestire tanti fronti in situazioni di emergenza. Sottolineo, allora, che questi pazienti non dovrebbero arrivare al pronto soccorso per i disturbi comportamentali e una delle finalità della rete di supporto intorno al caregiver dovrebbe proprio essere la prevenzione del disturbo comportamentale acuto”.
Ospedale e territorio, in ogni caso, dovrebbero sempre di più collaborare anche per arrivare ad offrire un percorso omogeneo sui diritti di legge. “Un argomento spinoso, oggi, è quello che riguarda l’amministratore di sostegno- ha aggiunto ancora l’esperta- perché i familiari o i caregiver quasi mai sanno quando e come attivarlo. E questo è un problema, perché se il paziente con demenza ha bisogno di una procedura e non ha un amministratore di sostegno può essere difficile dal punto di vista gestionale”.
Infine, uno sguardo alla situazione generale del nostro Paese. “Da un punto di vista teorico siamo messi bene- ha spiegato Zanferrari- nel senso che esistono dei protocolli ottimizzati che definiscono le priorità e i bisogni dei pazienti con demenza e i caregiver possono fare riferimento all’Osservatorio Demenze dell’Istituto superiore di Sanità, che periodicamente fa anche rilievi relativi al funzionamento dei diversi Centri nel nostro Paese. I centri specifici a cui il paziente può afferire, di cui abbiamo già parlato, sono i CDCD: sono circa 700 in Italia, molti collocati all’interno degli ospedali, mentre altri distribuiti sul territorio, ma in maniera disomogenea tra le diverse regioni. Esistono anche Pdta (Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali) territoriali e regionali, che sono scritti molto bene, ma- ha concluso- non sempre tradotti in una realtà concreta”.
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