“Il 30% degli ospedali italiani è stato costruito fra il 1941 e il 1970; il 20% dal 1901 al 1940; il 6% dal 1801 al 1900; il 10% prima del 1800. Per combattere le infezioni ospedaliere abbiamo bisogno di ripensare gli spazi, i medici lavorano in ambienti inadeguati: ci sono colleghi che lavorano in strutture realizzate 800 anni fa“. E’ uno dei dati riferiti da Antonio D’Amore, vicepresidente della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e direttore generale dell’Ospedale Cardarelli di Napoli.
D’Amore è intervenuto durante i lavori di uno dei tavoli tematici della seconda edizione dell’Open Meeting dei Grandi Ospedali Italiani, svoltasi il 25-26 maggio a Roma e organizzata dall’Azienda ospedaliero – universitaria Sant’Andrea e Policlinico Tor Vergata, insieme alla Sapienza Università di Roma e Tor Vergata in collaborazione con Koncept.
“Chi lavora nei grandi ospedali è chiamato ogni giorno a vivere le sfide di un presente che richiede competenza e capacità. Gli ospedali sono luoghi pieni di rischi (biologici, radiologici, chimici, fisici) per i pazienti, ma soprattutto per gli operatori – spiega il direttore D’Amore, moderatore del tavolo dedicato a ‘Adattamento a scenari di impatto rapido e sicuro in un Grande Ospedale’ -. La capacità dei nostri operatori di superare questi rischi è frutto della loro competenza e professionalità, nonostante siano spesso chiamati a lavorare in ambienti inadeguati”.
“Ci sono nostri colleghi che devono conciliare competenze e protocolli del presente con mura e spazi pensati per essere illuminati con le candele. Per ammodernare le infrastrutture, è partito il piano straordinario per l’edilizia sanitaria. I fondi sono ancora in fase di erogazione e questo piano è stato istituito con l’art. 20 della legge finanziaria del 1988”. “Una prova della professionalità e della flessibilità dei nostri operatori la abbiamo vista nella prima fase del Covid – ricorda D’Amore -. In poche ore reparti ordinari sono stati stravolti e modelli operativi sono stati ridefiniti in ragione di un rischio infettivo che pareva venire dall’800, ma che invece era contemporaneo, proprio come le nostre vite”.
“Ma per combattere le infezioni ospedaliere abbiamo bisogno di ripensare spazi, procedure e metodi di lavoro. Sappiamo tutti che per un medico, che a volte ha pochi istanti per prendere una decisione, mettersi in discussione può essere molto duro, ma è un esercizio che dobbiamo fare”, conclude.
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