Perché l’influenza aviaria quest’anno ci preoccupa tanto

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Ultimamente si è sentito parlare molto di influenza aviaria. E per un buon motivo: quella di quest’anno si sta rivelando una delle peggiori epidemie influenzali di sempre per i volatili, sia nelle popolazioni di uccelli selvatici, sia negli allevamenti di mezzo mondo.

Non è tutto, perché un focolaio particolarmente aggressivo scoppiato ad ottobre in un allevamento di visoni spagnolo ha riacceso i timori che il virus H5N1, il più letale tra quelli che causano l’influenza aviaria, possa adattarsi per migliorare la sua capacità di contagiare i mammiferi, con il rischio che effettui un vero e proprio salto di specie e dia origine ad una pandemia umana di cui al momento non è facile prevedere la potenziale portata. Per preoccuparsi è presto – assicurano gli esperti – ma si tratta comunque di una situazione da tenere sotto controllo. Vediamo cosa ne sappiamo.

Il virus dell’influenza aviaria

H5N1 è un virus che appartiene al sottogruppo A dell’influenza. Può infettare molte specie animali (compresa la nostra), ma è conosciuto principalmente come agente eziologico dell’influenza aviaria, perché dal 1996 è comparso un ceppo virale altamente patogenico negli uccelli (ma scarsamente infettivo per i mammiferi), che provoca periodicamente epidemie in tutto il mondo.

Dopo le prime caratterizzazioni in Cina nel ‘96, e un’epidemia ad Hong Kong l’anno seguente in cui furono registrati i primi casi di infezione umana, il virus ha continuato a mutare fino alla comparsa nel 2004 del cosiddetto genotipo Z, estremamente infettivo e capace di provocare sintomatologie molto gravi (negli uccelli), con un tasso di letalità che si avvicina al 100% per i polli d’allevamento, che negli anni seguenti si è diffuso velocemente, diventando il genotipo prevalente in tutto il mondo.

Un’epizoozia drammatica

Come tutti i virus influenzali, anche quello dell’aviaria accumula mutazioni velocemente spostandosi da ospite ad ospite. E si ripresenta periodicamente con annate più o meno severe, anche in funzione del genotipo virale prevalente.

Dal 2021 ha iniziato a circolare un virus particolarmente insidioso, che ha continuato a mietere vittime anche quest’anno. Lo scorso anno la conta era già arrivata a oltre 77milioni di polli di allevamento abbattuti per colpa dell’aviaria, e di più di 400mila uccelli di specie diversa dal pollame (selvatici e non) morti a causa del virus.

Quest’anno, da inizio ottobre gli uccelli uccisi dalla malattia o abbattuti per prevenirne la diffusione hanno già superato quota 100 milioni. Il paese più colpito è stato la Gran Bretagna, dove è diventato quasi impossibile trovare uova, soprattutto se provenienti da galline allevate a terra. Nelle isole Shetland, nel nord della Scozia, l’influenza aviaria ha ucciso quasi il 40% della popolazione locale di stercorari maggiori (Stercorarius skua), portando a temere per la sopravvivenza dell’intera specie.

Anche in Grecia l’epidemia del 2021/2022 ha colpito duro, uccidendo più di 500 esemplari di pellicano crespo selvatico. Così come in Israele, con oltre 6mila gru cenerine trovate morte nell’arco dell’inverno. Passata la bella stagione, l’influenza aviaria ha stretto nuovamente la sua morsa: negli Usa e in Canada il numero di uccelli selvatici uccisi dall’influenza è stato il più elevato dalla scoperta del virus.

E anche il Regno Unito quest’anno ha registrato la peggiore epizoozia (cioè un’epidemia animale) di sempre per quanto riguarda l’influenza, che spinto il governo ad emanare un vero e proprio lockdown del pollame, che ha obbligato gli allevatori a tenere al chiuso gli uccelli per evitare il rischio di contagio da parte di animali selvatici.

Il focolaio tra i furetti

Nel corso delle epidemie di influenza aviaria non è raro che il virus infetti anche animali diversi dagli uccelli da cui prende il nome. Di norma nei mammiferi la sua replicazione è meno efficiente, e quindi i contagi avvengono tipicamente quando un animale selvatico si ciba direttamente di uccelli infetti, mentre i contagi secondari (da mammifero a mammifero) sono praticamente sconosciuti.

È per questo che la vicenda avvenuta a ottobre nell’allevamento di visoni spagnolo è stata studiata con estrema attenzione dalla comunità scientifica: l’alto numero di contagi suggerisce la presenza di un virus che ha sviluppato un’elevata affinità per i mammiferi (o quanto meno per i poveri visoni), e quindi molto più pericoloso anche per la nostra specie.

Nell’allevamento spagnolo il virus ha dimostrato una letalità relativamente elevata (fino al 4,3% della popolazione totale nelle settimane peggiori), legata all’insorgenza di polmoniti emorragiche e disfunzioni polmonari di altro tipo.

E l’analisi del genoma virale (pubblicata su Eurosurveillance) ha rivelato la comparsa di una mutazione potenzialmente legata ad un adattamento del virus al nuovo ospite (i visoni), che potrebbe quindi spiegare la facilità con cui la malattia si è diffusa tra gli animali dopo il contagio iniziale, avvenuto probabilmente con l’ingresso casuale di un uccello infetto nei capannoni in cui vengono custoditi. Certezze ovviamente non ce ne sono, e tutto il personale dell’azienda spagnola è risultato negativo al virus H5N1.

Tutti i visoni dell’allevamento sono inoltre stati abbattuti per contenere l’ulteriore circolazione del virus, e non essendoci stati nuovi casi nei mesi seguenti è probabile che l’intervento abbia dato i frutti sperati. Detto questo, si tratta come dicevamo di un precedente preoccupante: un virus dell’aviaria adattato per infettare i furetti avrebbe infatti molta più facilità ad acquisire la capacità di diffondersi anche tra uomo e uomo. E con un effettivo salto di specie, si teme che una pandemia di aviaria potrebbe avere effetti devastanti.

Il virus nell’uomo

A spaventare gli esperti è il fatto che le infezioni di H5N1 nell’uomo, seppur rare, sembrano avere una letalità particolarmente elevata. Su 868 contagi umani confermati tra il gennaio del 2003 e novembre del 2022, i decessi sono stati infatti 457, il che significa che il virus nell’uomo potrebbe avere una mortalità del 53%.

Numeri spaventosi nell’eventualità di una pandemia, ma che è bene prendere cum grano salis. I contagi nell’uomo fino ad oggi sono sempre stati occasionali, e legati al contatto con animali infetti (non è mai stata confermata un’infezione diretta da uomo a uomo).

E non trattandosi di un virus che viene ricercato di routine in caso di malori, in nessuna parte del mondo, è inevitabile che il conto risenta di quello che viene un bias di campionamento: solo in caso di sintomatologie gravi è probabile che si esegua un tampone per il virus H5N1, e se le infezioni asintomatiche o paucisintomatiche, come è realistico immaginare, sono state in realtà molte più di quelle confermate, la letalità del virus potrebbe essere drasticamente inferiore a quella che ci restituiscono le statistiche ufficiali.

Al momento la valutazione dell’Oms del rischio che pone per l’uomo rimane bassa”, ha dichiarato nelle scorse settimane il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, aggiungendo però che “Non possiamo però dare per scontato che le cose rimarranno sempre così, e dobbiamo quindi essere preparati per qualunque cambiamento in questo stato di cose”.

Come? Monitorando con attenzione le varianti virali in circolazione, riducendo i contatti tra esseri umani e animali infetti, rendendo più sicuri gli allevamenti (come quelli di visoni), e promuovendo lo sviluppo di farmaci e vaccini con cui farsi trovare pronti nel caso in cui il virus diventasse realmente capace di trasmettersi tra esseri umani.

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Articolo pubblicato il giorno 19 Febbraio 2023 - 20:38

Erminia Iuliano

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Erminia Iuliano

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