Sfoggiava una cultura classica ma si rammaricava di non avere preso la laurea.
Si identificava con un personaggio letterario per potersi proclamare “capro espiatorio”. Poi tornava con nostalgia alla “tradizione” di famiglia ma confidava di non credere più in Dio: per gestire i suoi tormenti esistenziali gli bastava ormai la religione di Cosa nostra.
Il ritratto privato di Matteo Messina Denaro, raccontato da lui stesso, riaffiorò dalle cinque lettere scambiate tra il 2004 e il 2006 con l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino, morto dopo alterne vicende giudiziarie.
Non un personaggio qualsiasi, Vaccarino, ma una figura controversa: massone, insegnante di lettere, ma soprattutto amico del padre di Matteo, Francesco Messina Denaro. Venne condannato per traffico di stupefacenti ma assolto dall’accusa di mafia.
Per proteggere la propria latitanza e il suo interlocutore, il padrino scelse per sé un nome di copertura: Alessio. E a Vaccarino attribuì quello di Svetonio, lo storico romano, come se si trattasse di scrivere un’edizione aggiornata del “De viris illustribus”.
Matteo ‘Alessio’ neanche lo sospettava ma Svetonio, che pure considera una persona meritevole di stima e di fiducia, era stato arruolato dai servizi segreti per stanare proprio lui, il grande latitante.
Fu Vaccarino, nel perfetto ruolo dell’agente provocatore, a cercare il contatto con Alessio. E, dopo averlo agganciato tramite il fratello, gli scrisse: “Posso offrirti il mio cuore, garantirti il mio paterno affetto, e di questo non v’è dubbio alcuno”.
Decisivo era però il ricordo di don Ciccio, “tuo eccezionale genitore”,
morto da latitante per cause naturali. La mozione degli affetti colse nel segno: Messina Denaro si commosse, rispose e cominciò una corrispondenza che passò lungo i canali già ampiamente sperimentati dei ‘pizzini’, passati di mano in mano prima di arrivare al destinatario.Il tono confidenziale, con Messina Denaro che cercava sempre un registro colto e mostrava in ogni caso di avere letto Daniel Pennac, riconosceva nel capro espiatorio impersonato dal signor Malaussène.
“Di me che dire. Non amo parlare di me stesso – scriveva – e poi oramai è da anni che sono gli altri a parlare di me e magari ne sanno più di me medesimo; credo, mio malgrado, di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto, ma va bene così… Un uomo non può cambiare il proprio destino, l’importante è viverlo con dignità, io sono a posto con la coscienza e sono sereno”.
Bon aveva letto solo Pennac. Citava Virgilio e l’Eneide, zoppicava con il latino di Orazio,
orecchiava Kant. E mentre si interessava, come sempre, della gestione degli affari (la nuova stazione di servizio, gli appalti dell’Anas) lanciava strali all’antimafia.Ce l’aveva con i giudici, con i collaboratori di giustizia ma soprattutto con lo Stato per il quale il “fenomeno Sicilia” è ridotto alla stregua di “un’orda di delinquenti e una masnada di criminali”.
L’ultima lettera a Svetonio è del 28 giugno 2006. Bernardo Provenzano è stato arrestato. La polizia ha trovato nel suo archivio anche i pizzini di Messina Denaro che perciò è “imbestialito”. Le comunicazioni si fermano.
“Da questo momento non ci sentiamo più”. Ma il boss non sapeva che, oltre a Provenzano, pure Svetonio collezionava le sue lettere, regolarmente passate ai servizi. Quando lo scoprì si tolse la maschera di Alessio, riassunse il volto di Matteo e mandò al suo interlocutore un ultimo messaggio terrificante: “La sua illustre persona fa già parte del mio testamento…in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti”.
Ma prima della vendetta del padrino è arrivata la pandemia: Svetonio è morto di Covid nel maggio del 2021.
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