Perché la Juventus sì e le altre 8 squadre per le quali la procura Figc aveva chiesto di revocare la sentenza invece no? È la domanda più ricorrente tra i tifosi juventini nel day after della stangata inflitta dalla Corte d’appello federale. E anche i legali che hanno assistito il club nel processo sportivo hanno sottolineato quella che, a loro avviso, è stata una “palese disparità di trattamento ai danni della Juventus e dei suoi dirigenti”. In attesa delle motivazioni che permetteranno di inquadrare come è scaturita la decisione della revocazione e come i giudici hanno calcolato la penalizzazione, appare chiaro che una differenza sostanziale tra questo giudizio, il quadro precedente e anche buone parte delle vecchie inchieste sportive sulle plusvalenze è legato alle intercettazioni contenute negli atti dell’inchiesta penale di Torino. È sulla base di quelle carte che il procuratore Giuseppe Chinè ha chiesto di riaprire il processo e su quei documenti il collegio ha costruito il proprio verdetto.
In primis sulle conversazioni captate e su alcuni documenti sequestrati, come il “libro nero FP” citato anche da Chinè nel corso della requisitoria e definito, come viene inquadrato anche dai pubblici ministeri di Torino, “un atto di natura confessoria di Cherubini”. In quel foglio, nel quale viene riassunto il modus operandi dell’ex ds Fabio Paratici, l’attuale direttore sportivo definisce nero su bianco “artificiali” le plusvalenze che portano a un “beneficio immediato, carico ammortamenti”. Ottenute – secondo la procura di Torino – attraverso una “precisa pianificazione”, considerata “necessaria” per non rinunciare ai “giocatori di maggior rilievo”. La tesi dell’accusa è sostanziato da oltre tre mesi di intercettazioni. Un tempo durante il quale i dirigenti bianconeri hanno parlato – e molto – al telefono.
L’allora presidente Andrea Agnelli, intercettato con il cugino e azionista di Exor John Elkann, non coinvolto nell’inchiesta, parla di “eccessivo ricorso” allo “strumento delle plusvalenze”, con la conseguenza che “abbiamo ingolfato la macchina con ammortamenti (…) E soprattutto la merda… Perché è tutta la merda che sta sotto che non si può dire”. Visto che le plusvalenze cash – quelle derivanti dalla vendita in cambio di denaro di un calciatore ‘valorizzato’ – sono un elemento virtuoso, ad avviso degli inquirenti il riferimento è a quelle operazioni definite “a specchio” in cui la Juventus scambiava calciatori fissando prezzi “artefatti” senza scambio di denaro per abbellire il bilancio. Per comprendere l’impatto – secondo l’impianto accusatorio – nell’esercizio 2018/19 le plusvalenze avevano generato 126 milioni di euro, pari al 20,4% dei ricavi del club, e l’anno seguente si era raggiunto il picco con 166 milioni (29,1% dei ricavi).
Sono centinaia i dialoghi intercettati nei quali i manager fanno riferimento a operazioni di scambio per generare plusvalenze. “Io mi sono sempre interfacciato con Fabio, prima c’era Marotta ma negli anni di Marotta c’era un mercato più florido per le plusvalenze cash. Con Fabio siamo più andati nella direzione di fare plusvalenze da scambio”, dice Cherubini nel novembre 2021. Sempre il direttore sportivo, non indagato nel procedimento penale ma punito anche lui dalla Corte d’appello della Figc: “Beh, noi alle prime riunioni di marzo si parlava di fare 300 milioni di quelli eh! Io ti giuro c’ho avuto delle sere che tornavo a casa e mi veniva da vomitare solo a pensarci… perché poi… dietro quell’idea di Fabio… è evidente che quell’operazione è diversa dal vendere cash, perché quando vendi cash è la situazione migliore, vuol dire che c’è uno che vuole a tutti i costi il tuo giocatore e allora lo viene a comprare che sia da 3 milioni da 30 o da 50… le altre son tutte da costruire”.
Lo stesso direttore sportivo riportava una frase da lui attribuita a Paratici sugli scambi di giovani calciatori: “No ma figa, no ma no, non capisci un cazzo, tanto come facciamo da 4 facciamo da 10 non è un problema”. Convocato dagli inquirenti come persona informata sui fatti, Cherubini racconterà: “Le plusvalenze finte ritengo che siano quelle maturate nell’ambito di operazioni a scambio, fatte su ragazzi giovani per i quali la determinazione di un valore crea problematiche”. E sulle cifre iscritte a bilancio spiegherà: “Io più volte mi sono lamentato con Fabio che il valore che stavamo dando a quei giocatori non erano congrui”. Nella prospettiva di Chinè, sono molte le “dichiarazioni autoaccusatorie”, mentre per i legali della Juve rispetto a maggio – quando gli atti di Torino non erano disponibili – non c’erano “fatti nuovi”.
Alla luce della decisione della Corte presieduta da Mario Luigi Torsello, la linea Chinè ha avuto successo e secondo diverse interpretazioni, in attesa delle motivazioni, a far scattare la penalizzazione sarebbe stato l’articolo 4 del Codice di giustizia sportiva sulla “lealtà sportiva”, secondo il quale coloro che hanno un ruolo operativo in un club “osservano i principi della lealtà, della correttezza e della probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva”. Con quel modus operandi evincibile dalle intercettazioni, par di capire, i dirigenti della Juventus non lo avrebbero fatto. E le altre otto – Genoa, Sampdoria, Parma, Pisa, Empoli, Pescara, Pro Vercelli e Novara – per le quali Chinè aveva chiesto la revocazione? Si capirà dalle motivazioni. Di certo, a disposizione dei giudici c’era meno materiale “nuovo” per inquadrare come si sarebbero mosse nell’architettare le plusvalenze ritenute “artefatte”.
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