“C’è stata certamente una fetta di borghesia che negli anni ha aiutato Messina Denaro e le nostre indagini ora stanno puntando su questo”. Lo ha detto il procuratore Maurizio de Lucia durante la conferenza stampa sulla cattura del boss.
“Non era armato, come è emerso dalla perquisizione, e non aveva il giubbotto antiproiettile. Aveva un profilo perfettamente in linea con il profilo di un utente medio di quella clinica”. Ha spiegato invece il procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Paolo Guido, rispondendo alle domande dei cronisti.
“Matteo Messina Denaro ha girato il mondo. E’ stato in Venezuela, in Spagna, in Inghilterra. Lo abbiamo seguito anche con rogatorie. La cosa più preoccupante è che riusciva ad andare e tornare da Trapani senza nessun intoppo”. Così, al Tg3, Maria Teresa Principato, ex procuratore aggiunto di Palermo che per anni ha indagato sulla latitanza di Matteo Messina Denaro.
Oggi che Matteo Messina Denaro è finalmente stato arrestato dopo 30 anni di latitanza, si riaccendono in Toscana i riflettori sui presunti interessi economici che il boss avrebbe avuto nella regione, che sarebbe stata da lui frequentata nell’area occidentale anche in piena latitanza.
Un’inchiesta giornalistica de L’Espresso riportò suoi presunti, frequenti spostamenti tra la Versilia e la provincia di Pisa. Addirittura si avanzò l’ipotesi che avrebbe potuto contare sulla protezione di uomini legati alla ‘ndrangheta, molto presente in Toscana come dimostrano anche ultime indagini della Dda di Firenze.
L’ultima volta che Messina Denaro fu avvistato in Toscana, come risulta storicamente da fonti inquirenti, sarebbe stata nell’estate del 1993, a Forte dei Marmi (Lucca) dove pare che abbia soggiornato tre mesi, forse pure per vacanza. Poi ci sono state per 30 anni cicliche segnalazioni sulla presenza di Messina Denaro nella regione, soprattutto a Pisa e nella provincia.
Presenza sempre sospettata – e indagata – ma senza che si siano mai concretizzati riscontri ufficiali o tali da indirizzare in modo determinante le investigazioni sul capomafia latitante. La sua cattura e l’individuazione dei suoi interessi criminali – a partire dal riciclaggio di proventi ‘sporchi’ – sono stati obiettivi investigativi su cui la polizia giudiziaria attiva in Toscana nei vari uffici giudiziari ha studiato a lungo.
Alcune piste hanno portato a cercarne le tracce nei territori di Ponsacco e di Cascina, in provincia di Pisa, luoghi dove sarebbe stato attivo in piena latitanza. A Cascina avrebbe perfino soggiornato in un albergo, ovviamente sotto falso nome. Lo stesso settimanale riferì di un superteste toscano con qualche disavventura giudiziaria alle spalle che avrebbe perfino incontrato una volta il boss dopo un intervento di chirurgia plastica al volto e polpastrelli per rendersi irriconoscibile.
Ma non ci furono sviluppi di cui si sia poi saputo, oltre le ipotesi investigative. La ricostruzione dell’Espresso si concluse anche col riferimento a un presunto interesse di Matteo Messina Denaro per un appalto per il trattamento di rifiuti speciali in Toscana.
Solo pochi anni dopo da questi rumors investigativi – e l’arresto di oggi ne suggerisce una curiosa attinenza – è scoppiata la bufera legata al trattamento dei rifiuti conciari (il ‘keu’) con l’inchiesta della Dda fiorentina che ha coinvolto in vario modo esponenti del Pd locale e imprese di calabresi in Toscana con legami con clan di ‘ndrangheta in provincia di Catanzaro.
“L’arresto di Matteo Messina Denaro chiude un’epoca della storia criminale mafiosa. Era l’ultimo dei grandi latitanti, protagonista di una strategia risultata perdente per Cosa nostra”.
Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Palermo. E’ autore di numerose pubblicazioni sul fenomeno mafioso, dalle sue origini ai nostri giorni. Legge il fatto di cronaca come logica conseguenza del fallimento di una stagione, nata negli anni ’70, che segnava discontinuità rispetto al passato.
“Era il tempo in cui un gruppo criminale ha conquistato il potere mafioso scalando dall’interno l’organizzazione per poi lanciare l’attacco diretto alla Stato” spiega Lupo. Ma la mafia di Totò Riina e Bernardo Provenzano non c’è più
. “Quella di oggi – aggiunge – ripercorre le strade delle origini. Dove prevale l’inabissamento. In realtà, la fine di quel delirio criminale inizia con l’arresto del boss corleonese. Oggi è arrivato l’ultimo tassello di una risposta corale da parte dello Stato. E, in questo frangente, un ruolo non marginale l’ha avuto anche l’opinione pubblica che oggi come nel 1992 plaude all’arresto del boss”.
Basta con l’esaltazione del valore criminale: “Va sottolineato come sia stata errata una visione che assegnava al latitante l’attributo dell’imprendibilità. La lunga fuga dalla giustizia non va certo sottovalutata, ma neppure sopravvalutata. I boss in passato non venivano acciuffati perché non erano ricercati.
Se la mafia ha potuto alzare la testa negli anni ’70 è perché non ha trovato una corrispondente reazione da parte delle istituzioni. Dagli anni ’90 non è andata più così. Bisogna riconoscere che questo è stato un merito collettivo. I grandi capimafia hanno perso il carattere dell’invincibilità. Sono stati presi tutti, uno dopo l’altro”.
Per Lupo la mafia dei Riina e Provenzano non c’è più. “Avendo raccontato 160 anni del fenomeno mafioso, appare evidente che quest’ultima parabola ha rappresentato un’anomalia. Un gruppo di boss ha ritenuto di portare la guerra prima all’interno dell’organizzazione e poi all’esterno.
Finendo per credere di poter piegare lo Stato”. Le Forze dell’ordine, la magistratura, la politica, l’opinione pubblica sono sembrate per anni, agli occhi delle cosche, incapaci di reagire. “Ma poi la reazione c’è stata. Le inchieste e le collaborazioni hanno fatto franare progressivamente questa visione di onnipotenza.
L’operazione di oggi suggella questa tendenza che è già evidente da lustri. Per certi versi la mafia contemporanea sembra tornata ai suoi albori. Non significa che è stata vinta. Ma che ha assunto quelle forme con cui si era manifestata per decenni, fatta di crimini e collusioni, ma meno di violenza. Speriamo che questi mutamenti siano il preludio della sconfitta come si auspicava Giovanni Falcone attribuendole il carattere di fenomeno umano e vincibile”.
“In primo luogo va considerato che il boss ha bisogno di esercitare il proprio potere all’interno del suo territorio. Può disporre di ingenti disponibilità economiche, ma non può allontanarsi. Lì va cercato.
In secondo luogo si osserva che la mafia siciliana non gode più di quelle tutele e protezioni che arrivavano dalle Americhe. Oggi Cosa nostra isolana è più sola. Ed anche una malattia può segnare la fine di una storia criminale”, conclude Lupo.
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