La cosca calabrese dei Mammoliti acquistava centinaia e centinaia di chilogrammi di cocaina dal narcotrafficate Raffaele Imperiale che da due mesi è diventato un pentito.
Lo ha rivelato lo stesso boss dei Van Gogh (così soprannominato per essere entrato in possesso di due preziosissime tele del pittore fiammingo, custodite per lungo tempo e poi fatte ritrovare) in uno dei quattro verbali depositati nei giorni scorsi dall’ufficio inquirente partenopeo ai giudici del Riesame di Napoli.
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Gli affari, fa sapere Raffaele Imperiale subirono un’accelerazione nel 2016, dopo l’arresto di Rocco Mammoliti e il subentro alla guida di suo fratello Giuseppe. Le relazioni tra Imperiale e la cosca peggiorarono dopo il furto di un importante quantitativo di droga, ben 140 chili.
Imperiale spiega ai magistrati partenopei che a mettere a segno il “colpo” erano stati proprio alcuni affiliati calabresi. Lo sgarro non rimase impunito e ci scappò anche un omicidio spacciato per un regolamento di conto per vicende sentimentali. Imperiale e Giuseppe Mammoliti giunsero a un accordo: si sarebbero divise le perdite.
Ma comunque dalla Calabria non arrivarono ben 500mila euro. Da quel momento i Mammoliti cominciarono a chiedere quantitativi minori di cocaina, ricevendo però sempre il diniego di Imperiale.
Era un sistema perfetto, che per anni gli aveva permesso di diventare il punto di riferimento del narcotraffico internazionale in Europa. Basi logistiche, ovvero “case insospettabili” dislocate in piu’ punti d’Italia. Porti sicuri, “con navi commerciali grandi che fanno tratte intercontinentali” e i “cambisti”, uomini di fiducia che giravano soldi e li ripulivano.
E’ Raffaele Imperiale, il boss che possedeva anche due Van Gogh rubati, a raccontarlo ai pm della Dda. Il 10 novembre scorso, in un verbale depositato di recente dai pm il re del narcotraffico ha ricostruito nei minimi dettagli il modus operandi dell’organizzazione da lui creata, che aveva come ‘clienti’ potenti cosche napoletane e calabresi e in ottimi rapporti con i cartelli sudamericani.
“Della logistica e dei rapporti con i gruppi criminali italiani inizialmente si occupava Mario Cerrone, al quale sono poi subentrati Daniele Ursini e Bruno Carbone”, spiega, ammettendo di essere arrivato nel 2010 a Dubai, con 100 milioni di cocaina nascosti a Napoli all’insaputa del clan Amato-Pagano frutto dei suoi ‘affari’ in Brasile, e da li’ di aver usato piattaforme crittografate per gestire i suoi interessi in ogni angolo del mondo.
Inizialmente proprio gli Amato-Pagano del quartiere napoletano di Secondigliano “si occupavano della distribuzione sul territorio” della sua droga. Dopo l’ordine della cocaina, “tutto ricadeva sotto la responsabilita’ di Ursini che curava la gestione della consegna. Contattava direttamente il cliente e annotava il quantitativo consegnato e il nome del cliente. Poi almeno una volta al mese, anche piu’ spesso, la confrontavamo con quella tenuta da me, che tenevo la contabilita’ globale di tutte le operazioni”.
Il lavoro era sempre a credito “e piu’ velocemente pagavano i clienti piu’ rapidamente gli facevamo ulteriori forniture. Era un sistema vorticoso in continuo movimento. Il trasporto del denaro avveniva con le macchine ‘a sistema’, quindi con lo spostamento fisico. La consegna avveniva in un luogo individuato dal cliente, dove di solito ci occupavamo di ritirare noi, poi i nostri soldi venivano spostati in una nostra casa dove il denaro veniva contato e diviso e poi custodito in appositi appoggi”.
Le ville nella disponibilita’ dell’organizzazione “erano una decina, appoggi per droga e denaro, in due sicuramente non siete mai riusciti a entrare. In una di quelle in cui siete andati non furono scoperti 250 chili poi smerciati dagli Amato-Pagano”, racconta.
Oggi sul territorio europeo si guadagnano 2500 euro per ogni chilo di cocaina. Il gruppo faceva transitare la droga attraverso i porti di Gioia Tauro, ovviamente Napoli, Algeciras in Spagna, in Belgio, a Rotterdam, in Germania e Lettonia.
La rete di Imperiale gestiva contatti in Costa d’Avorio e in due anni ha portato a termine innumerevoli operazioni, per tonnellate di cocaina salpando da Turbo, in Colombia e soprattutto da Cristóbal, a Panama, usato come snodo anche da Brasile ed Ecuador, con destinazione Gioia Tauro.
“Avevamo almeno otto camion fissi disponibili per i trasporti dai Paesi Bassi, dei quali almeno 3-4 pronti a caricare. Tutti i trasportatori avevano un’attività legittima di copertura, tranne uno slovacco che lavorava solo per noi.
Lavoravamo sempre a credito, più velocemente pagavano i clienti, più rapidamente facevamo ulteriori forniture. Dopo il pagamento, il denaro veniva spostato in una nostra casa dove veniva contato, diviso e poi custodito in appositi appoggi. Il gruppo disponeva di una decina di ville per gli “appoggi” dove potevano essere nascosti fino a 10 milioni in contanti”.
2. continua
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