Teatro

Con “Occidente” sul palco gli orrori di Guantanamo

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Chi ha vissuto l’orrore dei lager nazisti saprebbe comprendere la tragedia umana che si è consumata e continua a consumarsi all’interno del carcere americano di Guantanamo.

Un orrore che, qualche sera fa, in molti abbiamo provato a immaginare cosa significasse tenendo gli occhi (e la mente) fissi sul palco del Teatro Tram per la 17ma edizione della rassegna I Corti della Formica ideata da Gianmarco Cesario (che ne cura la direzione artistica) e prodotta da Aries Teatro e Idn Itinerari di Napoli.

In scena un uomo nudo (solo per pochi minuti indossa una tuta arancione e una catena ai piedi, evidente richiamo alla prigionia sull’isola cubana) racconta – in un lungo monologo – l’angoscia di quei momenti. Un crescendo di annientamento e annullamento dell’essere umano, non in quanto tale, ma per la sua religione e i suoi presunti legami con il “nemico” islamico.

Protagonista di “Occidente” scritto da Antonio Mocciola, con la regia di Giuseppe Cerrone, è Gregorio Del Prete, che per questa sofferta e convincente interpretazione è nella cinquina dei finalisti per la categoria Miglior attore, in vista della cerimonia di premiazione che avverrà martedì 25 ottobre, alle 18, a Palazzo Migliaresi al Rione Terra di Pozzuoli.

Del Prete è un imam, giovane, bello, puro, fedelmente legato al suo credo (solo alla fine, spinto dalla disperazione, lo metterà in discussione) che viene lentamente spogliato della sua dignità di uomo e religioso. Il suo grido di dolore, mentre interroga e s’interroga sul perché accada tutto questo, arriva fino all’anima e (si spera) alla mente dello spettatore, per invitarlo a riflettere.

Un uomo, solo, in mezzo a tanti altri disgraziati come lui, gettato sul pavimento di quelle celle-lager costruite dagli americani “buoni” che violano i diritti umani. Donne trasformate nei peggiori aguzzini, donne che – contrariamente a ciò che si possa pensare – diventano belve feroci capaci di ogni turpiloquio, umiliazione e tortura fisica e psicologica.
Nudo davanti alla platea l’imam piange, si dispera, mentre intorno a lui si consuma la peggiore delle atrocità di cui un essere umano possa macchiarsi: l’annullamento dell’io.

Dell’altro da sé, in nome di una guerra che non ha e non può avere alcuna ragione d’esistere. Come tutte le guerre. Come quelle che ci richiamano alla mente le immagini di poveri iracheni tenuti al guinzaglio dalle soldatesse statunitensi in posa beffarda davanti all’obiettivo. Guerre che non sono mai finite. Mai chiuse, come quella prigione dove il giovane sacerdote è rinchiuso senza sapere il perché (tanto che, come un mantra, rivolgendosi al pubblico, ripete “non sono stato io”).

Ma all’orizzonte, mentre tutto sembra perso, una luce trafigge l’orrore a cui può arrivare l’umanità: l’amore. Quello tra uomo e donna, ma anche quello tra esseri dello stesso sesso, che possano amarsi liberi in un mondo che non può essere giusto solo a parole. Ma che sia l’Occidente davvero, per tutti.

La scrittura di Antonio Mocciola ha saputo “costringerci” (vivaddio!) a fare memoria di accadimenti che non possono e non devono appartenere al passato e che ci riguardano tutti; la regia di Giuseppe Cerrone è riuscita a trarre dal personaggio sfumature che non si sono esaurite nel racconto sterile della vicenda umana (con alcune scelte stilistiche originali come lo slip a stelle e strisce indossato dal protagonista, irriverente e dissacrante visione dell’oppressore americano antidemocratico). Consulenza e costumi di Sandra Banco.

E infine Gregorio Del Prete che ha plasmato su di sé – interiorizzandolo fino alle pieghe nascoste dell’animo – il protagonista, restituendoci il suo dolore, la sua fede, la sua razionalità, ma anche le sue contraddizioni fino a rinnegare quasi il suo dio. Per rinascere nella speranza del futuro e di quella forza arcana che, forse, è l’unica a poterlo salvare e salvarci: l’amore.

 Giuliana Covella


Articolo pubblicato il giorno 18 Ottobre 2022 - 19:30

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