E’ morto Peter Brook, leggenda del teatro e uno dei registi piu’ influenti del 20esimo secolo.
Il maestro di teatro, che aveva 97 anni, era nato in Gran Bretagna ma aveva trascorso gran parte della sua carriera in Francia, alla guida del suo teatro parigino Les Bouffes du Nord, con cui aveva reinventato l’arte della regia privilegiando forme raffinate al posto delle decorazioni tradizionali. La notizia del decesso, data da Le Monde, e’ stata confermata da fonti del suo entourage.
“Lo spirito, questa materia immateriale impossibile da giustificare e da mostrare, e’ l’unica giustificazione per l’evento teatrale”, ha sempre affermato Peter Brook, una delle piu’ grandi figure della scena teatrale internazionale, e oggi scompare a 97 anni (era nato il 21 marzo 1925), con tutta la ricchezza del suo lavoro, la piu’ mitica.
Basterebbe ricordare il suo ‘Marat-Sade’ di Weiss a meta’ anni ’60 e poi il colossale ‘Mahabarata’, spettacolo per Avignone del 1985 poi divenuto anche film e recentemente graphic novel.
“La corda tesa e’ l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro”, dichiarava, aggiungendo “non voglio insegnare nulla, non sono un maestro, non ho teorie”. Per lui l’importante e’ sempre stata l’impressione, far scattare la fantasia, che piu’ e’ libera, piu’ e’ essenziale e forte il punto di partenza.
Brook si e’ sempre impegnato per riuscire a far scomparire in scena ogni artificio, per far si’ che il diaframma tra la vita e l’arte venisse superato, praticamente annullando il concetto di finzione davanti alla rivelazione di una verita’ esistenziale profonda.
Cosi’ con lui il teatro diventava esperienza intima collettiva di vita, perche’ “quando un gruppo di persone e’ riunito per un evento molto intenso, che deve esprimere tutto cio’ che in poesia un grande autore puo’ dare, lo spirito diventa tangibile come e’ tangibile che quest’impressione non si puo’ avere in solitudine e il suo senso per tutti e’ che la vita puo’ essere vissuta”.
Il teatro e’ stato nella vita di Brook sin da quand’era ragazzo, se firma la sua prima regia a 18 anni e quindi si fa notare come interprete delle opere di Shakespeare, tanto da diventare, prima, direttore del London’s Royal Opera House e, nel 1962, della Royal Shakespeare Company, dove affianca ai classici una serie di opere moderne e lavori sperimentali ispirate in particolare al ‘teatro della crudelta” di Artaud, come un celeberrimo ‘Marat-Sade’ di Peter Weiss e ‘Us’ lavoro che faceva riferimento alla violenza della guerra in Vietnam e si concludeva ‘scandalosamente’ con un segno forte, bruciando viva una farfalla.
Nel 1970 si trasferisce in Francia e fonda a Parigi il Centre international de creation thetrale, dove, sotto l’influenza di Grotowski e del Living Theatre di J. Beck, sono state sperimentate le possibili applicazioni teatrali di un linguaggio non significante, improvvisato e massimamente gestualizzato.
Viaggia a lungo in Africa, improvvisando spettacoli nei posti piu’ sperduti. Poi torna a Parigi dove apre Les Bouffes du Nord e comincia a pensare e lavorare, anche con un lungo soggiorno in India, al ‘Mahabarata’, che diverra’ uno spettacolo poetico e rigoroso di nove ore, allestito in una cava di pietra, poema indu’ di 70mila versi sull’origine del mondo e la sua confusione e incertezza, restituendone, in una babele di lingue e razze, la verita’ profonda senza perderne il senso di favola.
Da allora non ha piu’ smesso di girare il mondo con i suoi spettacoli, da quelli ironici, giocosi e malinconici legati al suo mal d’Africa come ‘Sizwe Banzi est mort’ di Fougard o ‘The suit’, riduzione scenica di un romanzo del sudafricano Chan Themba, a un’invenzione sorprendente quale la sua ‘Carmen’, realizzata nel 1986 su una base di terra, trasformando i teatri in arene, con gli spettatori solo nelle balconate o in palcoscenico, cercando lo spirito autentico del personaggio di Me’rime’e e riducendo l’opera di Bizet quasi a un lavoro da camera, con quindici strumentisti e senza golfo mistico.
Del resto il suo ‘Flauto magico’ mozartiano, vagheggiato per anni e che e’ arrivato quasi come un testamento nel 2011 al Piccolo di Milano, si avvaleva di un solo pianoforte, fiaba simbolica, lieve e profonda, che resta ormai un po’ come la summa esemplare delle teorie e del teatro di Brook, del suo ‘spazio scenico vuoto’ in cui l’intuizione porta a distillare il senso dell’opera attraverso il corpo e la voce degli attori di tutte le culture.
Un lavoro portato avanti fino all’ultimo come la sua sesta volta appena nel novembre 2021 a Solomeo, in Umbria, con La Tempesta rivisita alla sua maniera, con una regia invisibile e assieme accuratissima nei particolari, in coppia con Marie-He’ le’ ne Estienne.
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