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Alessandro Piperno, torna con il suo ultimo romanzo “Di chi la colpa”

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Dopo cinque anni dalla sua ultima fatica letteraria, Alessandro Piperno, classe 1972, scrittore romano dalla penna raffinata – vincitore del Premio Viareggio e del Campiello opera prima con il romanzo d’esordio “Con le peggiori intenzioni” e vincitore del Premio Strega 2012 con “Inseparabili” – il 14 settembre 2021, è riapprodato sulla scena letteraria con un appassionante romanzo, costruito su una solida architettura narrativa ed un linguaggio colto, elegante.

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Il libro in questione, edito da Mondadori e che risponde al titolo: “Di chi è la colpa?” – un importante interrogativo preludio della trattazione di temi significativi come la colpa, l’impostura e l’inganno – mostra un racconto dettagliato in cui niente è lasciato al caso, nemmeno l’abile ritmo narrativo.

Riguardo al genere della storia qui rappresentata, Piperno afferma: “Di chi è la colpa nasce dal desiderio di offrire la mia versione di romanzo vittoriano, con tanto di peripezie drammatiche e spettacolari…”. Una vicenda di formazione in cui il protagonista attraversa sventure profonde, che si ripercuotono nella sua vita e nei rapporti con gli altri. “…un eroe che è sempre nel posto sbagliato, e non sa come uscirne”.

Immerso in una Roma degli anni ‘80/90, il protagonista si racconta attraversando la propria esistenza – da bambino prima, ragazzo ed adulto poi – e fornendo i più intimi particolari di una vita familiare mortificata dalle deprecabili condizioni economiche di cui è responsabile suo padre, di professione rappresentante di lavatrici; l’uomo che lo introduce alla passione per la musica, specie quella di Elvis Presley, ed allo studio della chitarra, strumento a cui, da bambino e fino all’adolescenza, dedicherà uno smodato interesse.

Non un semplice oggetto, ma una vero conforto per i suoi momenti di smarrimento e solitudine. Un padre, dunque, allegro e simpatico, che lo conduce in gita al mare per evitargli un pesante giorno di scuola sottraendolo ad una sicura punizione, che di notte gli tiene compagnia con la visione di film che riguardano la musica. Un padre affettuoso e complice, grande eroe della sua infanzia, che però, nei fatti, si rivela un irresponsabile spiantato capace di mettere in crisi la serenità familiare ed il suo matrimonio.

“Per un bambino è importante che il padre abbia una certa stazza: il mio era un colosso. Florido, barbuto, biondissimo, più Thor che Mangiafuoco (…). Eppure, a fronte di due spalle così, tutto in lui era placido, a cominciare dagli occhi. (…) E visto che affidabilità e senso della misura (virtù genitoriali di cui era desolatamente sprovvisto) non godono di alcun credito presso un bambino – i cui investimenti affettivi sono assai più romantici di quelli caldeggiati dalla psicologia progressista – posso dire che lui fosse il miglior padre che potessi immaginare”.

La figura materna si contrappone a quella del padre. La madre appare fin da subito una donna algida, severa, iperprotettiva. E’ un’irreprensibile insegnante di matematica di un liceo della Roma bene, che gli impartisce le regole della buona educazione, dell’igiene. Vigila in maniera quasi maniacale sulla sua salute attraverso continui controlli specialistici, verso i quali – nonostante le scarse risorse di denaro – non mostra parsimoniosità. Che lo sprona alla lettura e ritiene la sua formazione imprescindibile da una buona istruzione.

“…anche lei coltivava costose forme di megalomania borghese. (…) Lei si era intestata, se così si può dire, i dicasteri formativi: Salute, Igiene, Istruzione. E guarda caso i quattrini per soddisfare tali ossessioni riusciva sempre a trovarli. (…) Coltivava l’illusione che sapere tante cose decuplicasse le possibilità di scelta rendendo gli individui migliori”.

E’ una famiglia disfunzionale quella del giovanissimo protagonista senza nome, che di giorno vive un’apparente serenità tra i genitori mentre, di notte, li sente litigare animatamente in camera da letto e resta in silenzio ad attendere che il loro alterco abbia fine, facendo attenzione che la sua tormentata veglia non sia scoperta.
In realtà le differenze genitoriali sono profondamente radicate e legate alla loro nascita.

Il passato dei suoi genitori è un vero mistero per il giovane narratore, che non conosce parenti e che solo poco più che adolescente ha notizia delle origini ebree della madre. La scoperta avviene in occasione di un invito ad un Seder per Pesah (la cena pasquale per la Pasqua ebraica ) da parte del cugino Roberto a sua madre Gabriella, a cui partecipa insieme ad entrambi i genitori. Solo allora conosce i Sacerdoti, i membri della facoltosa famiglia d’origine della madre, la loro maestosa casa ed i privilegi di cui costoro godono.

Una famiglia dalla quale Gabriella si era allontanata proprio per la scelta di sposare un uomo non ebreo ( un “chiuso”), rinunciando ad una posizione economica dorata ed accogliendo, con convinzione, gli enormi sacrifici che ciò avrebbe comportato, senza peraltro mai tradire la sua proverbiale, stoica dignità.

Da quel momento in poi il ragazzo guarda i genitori con altri occhi e nota come tra loro s’insinui sempre più il seme della discordia, che colmerà nell’allontanamento del padre da casa, mentre lui è fuori con i nuovi cugini, suoi coetanei, per un soggiorno a New York, regalo dello zio Gianni Sacerdoti – scapolo impenitente, rinomato Avvocato ed illustre ordinario di diritto presso l’università. Un viaggio che per il ragazzo diviene anche occasione di un incontro d’amore e dell’esordio della sua passione per la cugina Francesca, bella, affascinante, misteriosa e colta, grazie alla quale si avvicina all’arte della scrittura mettendo via l’originario interesse per la chitarra.

In questo turbinio di eventi che stravolgono la sua morigerata esistenza di ragazzo timido ed introverso, si inserisce quello più devastante, irreversibile e sconvolgente: una disgrazia imprevista che di colpo gli strappa via la sua famiglia di origine e lo catapulta in una nuova realtà. Quella che pur lucente ed affascinante, al fianco dello zio Gianni Sacerdoti, suo tutore dopo il dramma che coinvolge i genitori, ben presto lo sottopone ad una metamorfosi.

Ad una versione di sé differente – probabile strumento di autodifesa e protezione – che s’impadronisce di lui e gli procura dei veri e propri tormenti. Affronta di continuo i fantasmi del passato e scopre che la verità vissuta non era autentica. E nel tentativo di affrancarsi proprio da quel passato finisce per indossare una maschera, che si traduce in una definitiva resa all’impostura.

Con sapiente destrezza dell’autore, il lettore mentre si emoziona viene qui proiettato – al pari del protagonista – in una potente ed alquanto scomoda riflessione sulla perdita, l’autoinganno e la liberatoria tentazione di addebitare agli altri la ragione della propria infelicità – “Ognuno è a modo suo un impostore, e ognuno si affanna a modo suo a sembrare quello che non è”.

Di Alessandro Piperno non occorre dire tanto, è preceduto dalla sua fama e con questo romanzo si riconferma un grande narratore dalle straordinarie doti nell’uso della lingua. Non passano inosservati lo stile forbito ed i dialoghi caustici, che contribuiscono in misura rilevante ad esaltare l’idillio ed il disincanto qui descritti, ma anche gli incisivi dettagli nella caratterizzazione dei personaggi della storia che, specie a partire dalla parte centrale, e fino alla fine, è connotata degli elementi che permettono di definire un romanzo struggente e riuscito.

Vi è una frase di Tolstoj in epigrafe: “Dove si giudica non c’è giustizia”. Riconduce alla colpa, che dunque assurge a protagonista non solo del titolo di questo avvincente romanzo e ci indica come essa venga in realtà identificata come un potere silente e logorante in attesa di riscontro. Ma la vita a volte mischia le carte …e diventa strumento di un’indagine introspettiva alla quale nessuno di noi può sottrarsi.

 Annamaria Cafaro


Articolo pubblicato il giorno 12 Aprile 2022 - 12:30


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