Se c’è un piatto che proprio non può mancare sulle tavole dei napoletani la sera della Vigilia di Natale è “Sua Maestà il Baccalà ” e il suo compare ” Il Capitone “, entrambi rigorosamente fritti.
Il baccalà fu’ importato, per la prima volta nella penisola, nel periodo delle Repubbliche Marinare grazie ai collegamenti dei nostri mercanti con i mercati del nord e questo era possibile perché tale pesce non si deteriora facilmente.
A Napoli iniziò a diffondersi agli inizi del 1500.
A quel tempo il baccalà, assieme allo stoccafisso, era considerato ” pietanza per i poveri ” perché il suo costo era contenuto, inoltre, nel periodo della Controriforma, la Chiesa aveva proibito il consumo di carne nei giorni comandati determinando, così, un aumento della domanda di pesce che i soli prodotti ittici locali non riuscivano a soddisfare e, infine, perché nella città partenopea se ne consumava davvero tanto.
Così, per agevolare l’elevata richiesta di pesce si cominciarono ad importare grosse quantità di baccalà, in quanto, saziante, economico e facile da conservare.
Attenzione a non confondere il baccalà con lo stoccafisso: il baccalà si riferisce al merluzzo grigio che, dopo essere stato pescato, viene prima decapitato, poi sventrato e salato in barile, operazioni che fanno direttamente i pescatori sui battelli. Quindi il baccalà è il merluzzo preparato per la conservazione tramite un processo di salagione e stagionamento.
Invece, lo stoccafisso, ovvero, merluzzo bianco, viene preparato per la conservazione tramite essicazione senza l’uso del sale: esso viene affumicato e lasciato asciugare all’aria aperta fino a diventare ” fisso”, cioè, “duro”.
Probabilmente da qui deriva la famosa espressione ” sie nu’ baccalà ” usata proprio per indicare una persona imbranata e per nulla sveglia e ricettiva.
Il baccalà è un pesce molto pregiato, ricco di proteine e di sali minerali che si conserva a lungo.
Oggi tutte le più grandi aziende italiane di importazione e di conservazione di questo pesce si trovano in Campania, soprattutto, a Somma Vesuviana.
A testimonianza della passione dei napoletani per il baccalà c’e un’opera letteraria di Antonio Parlato ( politico, avvocato e scrittore napoletano) dal titolo ” Sua Maestà il Baccalà ” .
C’è anche un simpatico accenno in una filastrocca inventata dal Principe Antonio De Curtis, noto al mondo, come Totò: ” fegato qua’, fegato la’, fegato fritto e baccalà…” filastrocca inventata dall’attore nel film ” Totò contro Maciste “.
Il baccalà, dai napoletani, viene cucinato in diversi modi: in pastella, all’insalata, con i pomodorini, con le patate….ma nelle feste natalizie ” a’ morte soja è fritt ” ,ovvero, domina sulle tavole nella versione fritta.
Lo Chef Francesco Muscariello spiega che il baccalà va’ prima tagliato a pezzi, poi ha bisogno di stare in acqua fredda per circa 4 giorni ( acqua che va’ cambiata ogni mattina e ogni sera) per far scaricare il sale in eccesso, per reidratarli e renderli morbidi e carnosi. Poi si scolano per bene, si infarinano abbondantemente e si friggono nell’olio bollente.
Dopo la cottura ” o’ pezzettullo e’ baccalà ” deve essere croccante e ben dorato fuori, mentre, tenero e succulento dentro.
Pronto il baccalà fritto tocca al suo compare ” il capitone “.
Il capitone, per i napoletani, si mangia, più che altro, per scaramanzia, ovvero, per allontanare la cattiva sorte, esorcizzando l’antico serpente, simbolo del male.
Anche in questo caso non confondiamo il capitone con l’anguilla: per anguilla si indica il maschio della specie, detto ” ceca “, di dimensioni ridotte; mentre per capitone si intende la femmina della stessa varietà che può mutare di lunghezza e con le orecchie grandi.
L’origine del consumo del capitone alla Vigilia di Natale ( ma anche a Capodanno) trova luogo sia nella tradizione giudaico- cristiana che in culti pagani rivolti alla fertilità, come in alcune leggende popolari.
Per forma e somiglianza questo pesce incarna l’antico ” serpente ” fonte sia di sapere che di malvagità.
Per il Cristianesimo è il serpente tentatore,il Demonio, che sedusse Eva nell’Eden e che tentò, dopo secoli, anche un’altra donna, la Vergine Maria, che ripara all’errore dell’antenata e sottomette alla sua autorità il serpente, schiacciandogli la testa sotto ai suoi piedi.
Proprio in virtù del legame cristiano si capisce perché il capitone deve essere ammazzato e cucinato dalle donne a memoria della disubbidienza di Eva e mangiato la sera del 24 dicembre, giorno della nascita di Gesù Cristo, poiché esorcizza il trionfo del bene sul male, allontanando i malefici e la malasorte come segno di Redenzione.
Basti pensare che nel libro dell’Esodo, Mose’, trasforma il suo ” bastone magico ” ( bastone di Aronne) in serpente e viceversa per convincere il Faraone della Parola di Dio; mentre nel libro dei Numeri, Mose’, fece un serpente di rame legato ad un palo per guarire dalle offese.
Invece, nei culti pagani, il tema iconografico dei serpenti, è presente nel Iarario Domestico, cioè, l’edicola sacra che ospitava le divinità protettrici della famiglia.
Il serpente è un simbolo esoterico molto diffuso.
Per questo, una leggenda tutta nostrana, associa il ” capitone- serpente ” alla magia di ” Virgilio Mago “, il grande poeta latino, alchimista e profondo conoscitore della natura che, proprio a Napoli, trovò fama e fortuna fondando la Scuola Ermetica e acclamato come Salvatore della città da ogni sorta di sciagura.
In una delle leggende si narra che Virgilio fu’ chiamato a soccorrere gli abitanti in Vico Soprammuro ( ” n’ copp e’ mmura ” del quartiere Pendino nei pressi di Porta Nolana) i quali erano spaventati da un terribile serpente che sgusciava tra i vicoli, avvelenando e mordendo le vittime tra le sue spire mortali. Virgilio mago addormento’ per sempre il terribile serpente pronunciando misteriose parole magiche.
Altro riferimento curioso sul capitone, da parte dei napoletani, è che nella smorfia napoletana esiste un numero tutto suo: il 32.
E come non ricordare il momento dell’uccisione e della preparazione del capitone ( ” che se ne fuje semp ” …. che scappa sempre) nella famosa commedia tragi- comica napoletana di Eduardo De Filippo ” Natale in casa Cupiello ” del 1931.
Insomma, questa pietanza, sacra e profana della tradizione napoletana, accompagna il baccalà sulle tavole dei napoletani.
Lo Chef Francesco Muscariello spiega che quello del capitone è un rito un po’ crudo!
In genere il capitone si compra qualche giorno prima, lo si alleva come quasi ad ingannarlo di benevolenza e, il giorno della Vigilia, si cucina.
Il capitone viene privato di testa e coda, viene sviscerato ma non spellato e tagliato a pezzi; questi, poi, vengono lavati, scolati bene e infarinati, pronti per essere fritti in olio bollente.
Insomma “Baccalà e Capitone fritti” sono pronti, non devono mancare sale e pepe e,soprattutto, nn deve mancare il gesto di rimboccarsi le maniche perché, per gustare queste bontà, si usano le mani e buon appetito a tutti!
Valeria Barbaraci
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