Si erano appena concluse le riprese del suo ultimo capolavoro, “Il Postino”, un film ambizioso e impegnativo, le cui fatiche non avrebbe dovuto affrontare considerato il suo stato di salute già molto precario.
Troisi aveva fatto ritorno in America per incontrare nuovamente il chirurgo De Beckey che già una volta – agli inizi della carriera – l’aveva operato al cuore. Sapeva di non poter affrontare il doppio sforzo dell’ideazione e dell’interpretazione (nonostante avesse lasciato la regia a Michael Radford per arrivare alla fine delle riprese) ma scelse di non risparmiarsi per avere l’opportunità di Philippe Noiret nel ruolo del poeta Neruda.
Nato il 19 febbraio del 1953 da un macchinista ferroviere e da una casalinga, il “Pulcinella senza maschera” che il pubblico avrebbe amato fin dall’esordio con “Ricomincio da tre” (1981), si era formato sulle tavole del palcoscenico, istintivo erede di Eduardo e di una napoletanità irridente e dolente che avrebbe traghettato in un diverso sentire, quella della “nuova Napoli” di Pino Daniele e di Roberto De Simone.
Col gruppo “I Saraceni” e poi con gli iseparabili amici de “La Smorfia” – Lello Arena ed Enzo Decaro -, uscì presto dai confini del successo paesano per portare la sua Lingua sulle reti televisive nazionali e poi al cinema. Com’era accaduto solo a Eduardo e a Totò, quella Lingua divenne comprensibile a tutti.
Il successo di Torisi fu inatteso, clamoroso, immediato. Erano gli albori di quegli anni ’80 che portavano alla ribalta insieme a lui la generazione dei Moretti e dei Benigni, ma fu proprio col toscanaccio Roberto che Troisi trovò un’empatia istintiva, festeggiata dal pubblico col clamoroso successo di “Non ci resta che piangere” (1984).
La critica aveva apprezzato di più l’opera seconda del regista Troisi (“Scusate il ritardo”, 1983), ma non fu sempre generosa con l’autore, salvo poi tributargli grandi encomi postumi dopo le quattro nominations de “Il Postino” che nel 1996 fruttarono al film l’Oscar per la colonna sonora di Luis Bacalov.
Ma la sua filmografia, spesso segnata dal sodalizio affettivo e artistico con la sceneggiatrice Anna Pavignano, meriterebbe anche oggi una rivisitazione da “Le vie del Signore sono finite” (1987) a “Pensavo fosse amore… e invece era un calesse” (1991). Fu invece un collega, Ettore Scola, a intuire le potenzialità di un attore/autore assolutamente unico fino a farne l’anima del suo appassionato “Il viaggio di Capitan Feacassa” (1990) in cui vestiva la maschera di Pulcinella e a dargli l’opportunità di dialogare sul set con un maestro come Marcello Mastroianni.
Ne uscì una coppia di film assolutamente unici come “Che ora è?” e “Splendor” (nel 1989) e per il primo Massimo ebbe la Coppa Volpi alla mostra di Venezia. Nella bacheca di Troisi i premi (dai David ai Nastri d’argento) non mancavano ma proprio il successo planetario de “Il Postino” dice quanta strada avesse ancora davanti il ragazzo di San Giorgio a Cremano. Ancora oggi resta il sentimento di un talento irripetibile e luminoso che senza Napoli non sarebbe esistito ma che a Napoli ha restituito la statura di una vera capitale mondiale.
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