L’impegno che negli anni ha distinto le associazioni dei familiari rappresenta un valore civico e concorre a perseguire un bene comune”. Lo dichiara il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordando il trentesimo anniverario del disastro della Moby Prince.
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“Ricorrono trent’anni – ricorda il Presidente della Repubblica – dall’immane tragedia che coinvolse il traghetto Moby Prince. Centoquaranta persone, passeggeri ed equipaggio, persero la vita in seguito alla collisione con una petroliera e all’incendio che ne scaturi’. Il primo pensiero e’ rivolto alle vittime, alle tante vite improvvisamente spezzate di adulti e di giovani, e al dolore straziante dei loro familiari, che si protrae nel tempo e ai quali rinnovo la vicinanza e la solidarieta’ della Repubblica”.
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“E’ stato il disastro piu’ grave nella storia della nostra navigazione civile. – sottolinea Mattarella – Il popolo italiano non puo’ dimenticare. Come non dimentica la citta’ di Livorno, che vide divampare il rogo a poche miglia dal porto e assistette sgomenta alla convulsa organizzazione dei soccorsi e al loro drammatico ritardo”. “Sulle responsabilita’ dell’incidente e sulle circostanze – prosegue il Capo dello Stato – che l’hanno determinato e’ inderogabile ogni impegno diretto a far intera luce. L’impegno che negli anni ha distinto le associazioni dei familiari rappresenta un valore civico e concorre a perseguire un bene comune”. “Il disastro del traghetto Moby Prince . prosegue Mattarella – e’ monito permanente per le autorita’ pubbliche e gli operatori, chiamati a vigilare sulla navigazione e a garantirne la sicurezza. Rispettare gli standard stabiliti, sforzarsi di elevarli, assicurarne una corretta applicazione sono responsabilita’ indeclinabili, che sole possono consentire l’esercizio di un pieno diritto da parte dei cittadini e portare cosi’ beneficio all’intera societa'”, conclude il Presidente della Repubblica.
A trenta anni dalla tragedia della Moby Prince potrebbe aprirsi una nuova pista per cercare di far luce su quanto accaduto nel porto di Livorno, nella notte del 10 aprile del 1991, dove 140 persone morirono nel più grave incidente della marina civile italiana. Una pista che ha del clamoroso: una vendetta della mafia contro lo Stato, un anno prima della strage di Capaci. E’ questa l’ipotesi contenuta in un libro appena pubblicato da Mondadori, “Una strana nebbia” di Federico Zatti. Trovando un filo sottile che lega la Sicilia di Totò Riina alla Ravenna del Gruppo Ferruzzi, passando dalle cave di marmo di Carrara e dalle rotte marittime del petrolio, il giornalista ricostruisce una storia inedita che apre nuovi interrogativi. “Ho intitolato il libro ‘Una strana nebbia’ perché di nebbia si parlò fin dall’inizio. Era una delle basi su cui si è costruita la verità e il racconto di questi strano incidente – ha spiegato l’autore – Un traghetto che faceva la tratta Livorno-Olbia, appena uscito dal porto di notte, che va a finire contro una petroliera gigantesca ferma nella rada del porto. Colpisce la petroliera quasi a massima velocità. Come è possibile? La spiegazione che si individuò fin dalle prime ore dell’incidente fu quella di attribuirla a una nebbia molto densa e una imperizia del comandante del traghetto”. “Strana nebbia. Strana perché dopo 28 anni di racconto in questo senso la commissione d’inchiesta parlamentare che si è conclusa pochi anni fa ha distrutto queste verità processuali dicendo che non si puo più parlare di nebbia”, ha aggiunto Zatti. E allora, se non è la nebbia, cosa sarà stato? Restano aperti moltissimi interrogativi.
“Quello che ho fatto in questo libro è di aver cambiato il punto di vista. Se finora l’attenzione è rimasta concentrata sul traghetto e sulle 140 vittime io ho fatto l’operazione inversa. Ho iniziato a guardare la petroliera, quell’inerme, gigantesca petroliera che stava ferma in mezzo al mare. E ho iniziato a premi delle domande. Da dove veniva la petroliera? Dal posto dal quale si pensava sia arrivata, l’Egitto? Eppure c’è qualcosa che non torna in questo tragitto. Sono troppo pochi giorni di viaggio rispetto alla lunghezza delle miglia da coprire. Trasportava petrolio? Il comandante parlò di nafta, cioè benzina, mentre la petroliera avrebbe dovuto trasportare petrolio grezzo”. “Ecco che da queste domande io sono partito per ipotizzare una storia diversa. Ovvero quella di una vendetta mafiosa contro lo Stato per la gestione del petrolio. Allora la Moby Prince va contro la petroliera deliberatamente perché è stata dirottata. Questa è l’ipotesi che sostengo nel libro. Dopodiché sarà la magistratura che dovrà trovare le prove e determinare se questa è una verosimiglianza davvero reale”, ha sottolineato il giornalista.
“Nel momento in cui io cambio il punto di vista e parlo della petroliera tutto il racconto è un racconto di petrolio e petroliere. Ecco, c’è una coincidenza che è stata poco messa in relazione con la tragedia di Livorno: 12 ore dopo, a circa 80 miglia di distanza, fuori dal porto di Genova, c’è un’altra petroliera, la Haven, che prende fuoco e si inabissa con il suo carico. Secondo me le due circostanze, due petroliere che prendono fuoco nei due principali porti italiani, sono da mettere in correlazione e forse troverebbero la spiegazione nell’ipotesi della vendetta mafiosa”. È una pista del tutto nuova, originale, inedita, e che naturalmente dovrà appoggiarsi su delle prove concrete. “Io la ipotizzo mettendo insieme degli elementi di congruenza e che rispondono a tutte le domande aperte sul caso Moby Prince. Dopodiché saranno altri a trovare le prove definitive di questa ipotesi”, ha spiegato. “Io racconto di una mafia che proprio in quegli anni voleva appropriarsi del petrolio. Voleva entrare nel grande business, stava forse per farlo attraverso un passaggio di società e la scalata all’Enimont, e immediatamente fu espulsa perché Gardini fu fermato. Si interruppe questo progetto di cui probabilmente Gardini non era a conoscenza. Lo era Panzavolta, il numero due del gruppo Ferruzzi. Quindi nel libro lego questi eventi tutti insieme. La possibilità che ci sia una sorta di vendetta come ci ricordiamo essere stata la vendetta contro lo Stato con la strage di Capaci”.
“Mi ricordo una nottata con il mio amico Mauro da apocalisse, ma abbiamo salvato l’unico superstite del Moby. Un visibilio di sensazioni impressionanti che non puoi dimenticare mai”. Comincia cosi’ il racconto di Valter Mattei, 69enne, che insieme al collega ormeggiatore Mauro Valli la notte del 10 aprile 1991 riusci’ a salvare Alessio Bertrand, mozzo del Moby Prince e unico superstite della tragedia avvenuta nella rada del porto di Livorno: il traghetto prese fuoco dopo la collisione con la petroliera Agip Abruzzo e morirono in 140 tra passeggeri ed equipaggio. “Due navi che bruciavano in mezzo al mare – racconta Mattei, oggi in pensione – uno scenario inimmaginabile, una sensazione di impotenza, ma noi eravamo li’ e siamo andati sotto bordo alla petroliera in fiamme con una barchetta di sette metri senza cabina e con il rischio, ripensandoci a mente fredda, di lasciarci la pelle. Con questo Moby Prince che ripassava sulla scena della collisione ogni 40 minuti facendo dei giri che lo riportavano in prossimita’ dell’Agip Abruzzo”. “Noi eravamo in contatto con il comandante della petroliera – racconta ancora l’ex ormeggiatore – per cercare di mettere in salvo i membri del loro equipaggio, quando dalla mia radio ascolto la comunicazione di uno dei due o tre rimorchiatori che nel frattempo avevano raggiunto l’Agip Abruzzo: ‘Franco stai attento arriva da dritta una nave senza comando’. A quel punto abbiamo rincorso il Moby poi l’abbiamo perso nel fumo, nel vapore acqueo e nei banchi di nebbia, c’era di tutto, abbiamo sentito l’odore della nave che bruciava e cosi’ siamo riusciti a incrociarla di nuovo. In quel momento abbiamo visto Bernard che penzolava a un angolo di poppa del Moby, dal lato destro mi pare, si e’ lanciato in mare e cosi’ lo abbiamo raccolto. Continuava a lamentarsi dicendo che aveva camminato sui corpi, gli ho dato il mio giubbotto, e lo abbiamo consegnato a una motovedetta della capitaneria continuando a seguire il Moby per vedere se si buttava qualcun altro, ma purtroppo non si e’ buttato piu’ nessuno. Girando attorno alla nave abbiamo visto che dentro il garage c’era un vero inferno di fuoco, cosi’ come dagli oblo’ uscivano solo fiamme. A quel punto abbiamo deciso di provare a seguire in corrente l’eventuale traccia di altri superstiti, ma riuscimmo a recuperare solo un pezzo di scialuppa che rimorchiammo a banchina”.
Sono le 22.25 del 10 aprile 1991 quando il Moby Prince, traghetto della flotta Navarma partito poco prima dal porto di Livorno e diretto ad Olbia dove sarebbe dovuto arrivare il giorno successivo, si scontra con la petroliera Agip Abruzzo che si trova nelle acque di fronte alla citta’ toscana. A causa del violento impatto fra le due imbarcazioni, da una delle cisterne della petroliera comincia a fuoriuscire petrolio in grandi quantita’. Poco dopo, probabilmente innescato dalle scintille provocate dalla collisione delle lamiere, scoppia un terribile incendio e sia la Agip Abruzzo che il Moby Prince vengono avvolti dalle fiamme. A bordo del traghetto si trovano 75 passeggeri a cui si aggiungono i membri dell’equipaggio. Parte il “may day”, ma la macchina dei soccorsi, metteranno in luce le indagini, non si mette in moto con la necessaria rapidita’. Tanto che i primi soccorritori individuano il traghetto alle 23,35, ovvero piu’ di un’ora dopo la collisione. Nell’incendio perdono la vita 140 persone che si trovavano tutte a bordo del Moby Prince.
Alla fine si salvera’ soltanto Alessio Bertrand, un mozzo napoletano che era a bordo del traghetto. Trasportato al pronto soccorso dell’ospedale di Livorno, il giovane componente dell’equipaggio se la cavera’ anche se restera’ segnato per sempre dalla tragedia. Ma la sensazione che si respira fin dai primi istanti – poi ripresa e consolidata anche dalle successive indagini della magistratura – e’ che i ritardi impedirono a molte persone di potersi salvare. Tante le tante ipotesi sulle cause del disastro che spuntano fin dall’inizio. Si parla della presenza di nebbia nella zona dell’incidente, di un guasto alle apparecchiature di bordo, di una eccessiva velocita’ di una delle due navi. E si parla con insistenza anche di una distrazione di chi doveva vigilare dovuta al fatto che proprio in concomitanza con l’incidente e’ in onda in televisione la semifinale di Coppa Uefa fra Barcellona e Juventus. Su quanto successo davvero a bordo delle due navi coinvolte nell’incidente, ancora oggi a trent’anni di distanza non si e’ ancora riusciti a fare definitivamente chiarezza. Provera’ a fare luce sul piu’ grave incidente della marineria italiana una nuova commissione d’inchiesta che ha avuto il via libera proprio in questi giorni dalla Camera dei deputati. Fino ad oggi la tragedia del Moby Prince e’ rimasta dunque senza un colpevole. Ma i familiari delle 140 vittime del disastro, riuniti da subito in una associazione che chiede giustizia e verita’ su quanto accaduto quella notte, non si sono mai arresi. E dopo una lunga serie di inchieste e di processi che non hanno mai individuato i responsabili dell’incidente, continuano a far sentire con insistenza la propria voce. E da quel lontano 1991, ogni 10 aprile si ritrovano a Livorno per manifestare la propria sete di giustizia. Sull’incidente della Moby Prince, ultima in ordine di tempo, ha lavorato anche una commissione parlamentare voluta per arrivare alla verita’. Le conclusioni della ricostruzione, rese note nel 2018, hanno fatto si’ che la Procura della Repubblica di Livorno abbia aperto una nuova indagine. Ed e’ anche a questa che si aggrappano le famiglie dei 140 morti per poter sgombrare i misteri che ancora non sono stati risolti fino in fondo.
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