Dovranno presentarsi dinanzi alla Quarta Sezione della corte partenopea, all’udienza fissata ad inizio aprile, lo stesso boss Belforte (condannato in primo grado a trent’anni) e sua moglie Maria Buttone (condannata in primo grado all’ergastolo), accusati entrambi per il delitto. Appello anche per Alessandra Golino, nuora del boss, accusata di estorsione.
Secondo quanto ricostruito, Angela Gentile era stata per lungo tempo una fiamma di Domenico Belforte. Da lui, nel 1978, aveva avuto anche una figlia. Il boss, tuttavia, non aveva mai “ufficializzato” quella nascita, al punto da non riconoscere la neonata. Nel 1991, quando ormai la ragazza aveva 13 anni, Belforte si era riavvicinato alla Gentile al punto da offrirle anche alcuni contributi di ordine economico ma scatenando, al contempo, le ire della Buttone. Questa, perciò, pose l’uomo di fronte a un aut aut: o lo avrebbe lasciato, portando con sé i loro figli, oppure lui avrebbe dovuto assassinare quella donna e occultarne il cadavere; in cambio, avrebbe accettato di crescerne la figlia presso la loro casa. Il tragico epilogo della vicenda segnò la scelta del ras il quale, consumato il delitto, occultò il cadavere dell’amante in un sito ancora oggi ignoto. Allo stesso tempo, la Buttone tenne fede al patto, accogliendo la bambina presso casa “Belforte”.
Per la Corte di Cassazione – che ha confermato il carcere per la Buttone dopo la sentenza di primo grado – l’omicidio “non fu causato dalla gelosia di una moglie che aveva scoperto l’esistenza della relazione extraconiugale del marito, Domenico Belforte, a capo dell’associazione camorristica di Marcianise, quanto dalla pretesa, rispondente a deprecabili logiche criminali di tipo mafioso, della moglie del capo clan di ottenere adeguata compensazione per aver subito un torto e accettato di accogliere in casa la figlia illegittima che il marito aveva avuto da quella relazione”.
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