Napoli. È stata presentata oggi a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli, la quinta edizione del “Rapporto Agromafie e caporalato” a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto/ FLAI- CGIL che – come i precedenti – fotografa la situazione degli ultimi due anni (ottobre 2018-ottobre 2020) concernente lo sfruttamento lavorativo nel settore agro-alimentare e le criticità dei rapporti di lavoro dovute a contratti ingannevoli e a raggiri perpetuati a danno dei lavoratori. Inganni e raggiri sono distribuiti diversamente in tutti gli ambiti produttivi che nel loro insieme costituiscono la filiera di valore dell’intero settore.
Il rapporto si compone di quattro parti, ciascuna focalizzata ad esplorare specifici ambiti che nell’insieme contribuiscono ad illuminare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo.
Nella quarta parte vengono riportati degli approfondimenti che nell’insieme sono complementari alla conoscenza del fenomeno del caporalato. Per la Campania, oltre ad un’analisi dei numeri e del contesto regionale, viene analizzato il caso della Piana del Sele, in provincia di Salerno, tra i principali agroalimentari campani.
“I dati contenuti nell’indagine condotta da Flai-Cgil e Osservatorio “Placido Rizzotto” – dichiarano il segretario Cgil Campania, Nicola Ricci e la segretaria generale Flai-Cgil Campania e Napoli, Giovanna Basile – ci dicono che in Campania, nonostante la legge 199, continuano a persistere gravi situazioni di illegalità diffusa nel settore agroalimentare e a farne le spese non sono soltanto cittadini comunitari o extracomunitari ma anche le lavoratrici ed i lavoratori italiani, che devono sottostare a condizioni di lavoro estreme e senza un giusto e regolare riconoscimento economico. Ancora oggi, a fronte di 6500 regolarizzazioni concluse grazie alla sanatoria inserita nel decreto Rilancio, sono ancora 11.200 i lavoratori e le lavoratrici irregolari presenti sul territorio regionale. Bisogna liberare il lavoro dello sfruttamento attraverso la piena applicazione della legge sul caporalato, il rafforzamento delle visite ispettive che, nonostante siano diminuite, continuano a registrare alti tassi di irregolarità e, infine, l’istituzione delle sezioni provinciali della rete agricola di qualità. Solo così – concludono – si combatte lo sfruttamento dando lavoro sicuro, stabile e regolare a chi lavora in questo settore”.
I numeri in Campania. Dei 73.270 operai agricoli occupati (al 2018) a livello regionale quasi il 70% è composto da lavoratori di origine italiana. Rispetto all’anno precedente (2017) si registra una riduzione di 1.865 casi, quasi del tutto imputabili al contingente di lavoratori italiani e in parte più piccola a quello proveniente dai Paesi Ue. Di converso, per i non comunitari si registra un sostanzioso incremento numerico, uguale a 1.600 unità, per svolgere, prevalentemente, attività a tempo determinato tra le più variegate. Anche tra gli addetti a tempo indeterminato il contingente italiano è quello che registra la maggior flessione – pur restando percentualmente intorno all’80,0% – rispetto a quello composto dai comunitari e dai non comunitari (questi ultimi restano numericamente uguali nell’uno e nell’altro anno all’esame, ovvero a poco più di 800 unità).
I lavoratori stranieri in agricoltura in Campania sono diversamente distribuiti sul territorio delle rispettive province. La provincia di Salerno occupa quasi il 45% del totale degli stranieri del settore (con 9.847 unità su 21.633 al 2018), seguita da quanti sono occupati in quella di Caserta (il 33,1%) e di Napoli (il 12,8), confermandosi come l’area agro-alimentare più estesa a livello regionale.
Relativamente alla regolarità o irregolarità del contratto si riscontra una significativa percentuale di lavoratori in condizioni occupazionali non standard in misura del 26,1% (leggermente più basso rispetto a quello rilevato nel 2015 che ammontava al 29,5%). La diversa provenienza geografica non appare per nulla significativa, poiché sia per i non comunitari che per i comunitari la distribuzione dell’una e dell’altra forma contrattuale è sostanzialmente della stessa entità percentuale. Anche per quanto riguarda l’entità della remunerazione non si riscontrano differenze tra le due componenti occupate: nell’una e nell’altra sono nell’ordine del 27% e conseguentemente la stessa parità percentuale si registra per le retribuzioni standardizzate, cioè conformi alle disposizioni contrattuali.
Da questi dati si evince pertanto che circa il 27% dei lavoratori – sia di origine non comunitaria che comunitaria – compresi tra 5.650 e le 5.950 (dunque 5.800 casi), non percepisce né un salario secondo le direttive del contratto nazionale/provinciale, né una retribuzione conforme ai medesimi contratti. Pertanto siamo davanti ad un contingente di lavoratori configurabile come altamente precario e dunque plausibilmente con un tasso di vulnerabilità socio-economica consistente e con contingenti caratterizzabili con rapporti di lavoro servili. A questa parte di addetti è affiancabile quella considerata del tutto irregolare dall’Istat (al 23,8%), che ammonta a 4.935 unità, facendo così lievitare il numero di occupati in condizioni di accentuata vulnerabilità/precarietà su tutto il territorio regionale a 10.735.
Articolo pubblicato il giorno 16 Ottobre 2020 - 14:35