Unico lungometraggio italiano in concorso, “Rosa pietra stella” è distribuito da Pfa Films ed è prodotto da Antonella Di Nocera (Parallelo 41 Produzioni), Gaetano Di Vaio e Giovanna Crispino (Bronx Film) e Pier Francesco Aiello (Pfa Films) con Rai Cinema, con il contributo di Mibact-Dg Cinema e Audiovisivo, Regione Campania e Film Commission Regione Campania.
Carmela, nome omaggio come il titolo del film al famoso brano di Sergio Bruni, riassume in se e nella sua storia il tema della maternità, quello della casa, il dramma del lavoro e l’interrogativo sempre presente del rapporto con l’altro, con il diverso da se, con il migrante.
Una scelta “per far meglio risaltare le molte sfumature di un carattere complesso – spiega all’AGI il regista – mi sembrava logico raccontarla in un momento di grande pressione della sua vita, quello in cui ha l’obbligo di trovare una via per mantenere il suo rapporto con la figlia undicenne, Maria. E ha davanti a se una realtà in cui quelle piccole illusioni che si era creata, la svolta e il riscatto da un destino segnato e uguale rispetto la madre e la sorella attraverso il suo lavoro, cadono tutte”.
‘Rosa pietra stella’ è ambientato nel centro storico di Napoli, a Porta Capuana, già al centro di un lavoro documentaristico di Marcello Sannino, e a Portici, sua città natale. Carmela, bella e indomita, sotto sfratto, tira avanti giorno per giorno con lavori precari e vane ambizioni, finche’ non le capita, per conto di un avvocato abbastanza equivoco, di fare affari con gli immigrati clandestini che popolano i vicoli di Napoli, alla ricerca continua di un contratto di lavoro, anche falso, per ottenere il permesso di soggiorno. E’ stata la madre poco presente di Maria, ma ora vuole rimediare. Conosce Tarek, un quarantenne algerino, e lo travolge nella sua lotta per trovare un equilibrio, tra l’occupazione abusiva di una casa di proprietà di un parroco non troppo caritatevole e il tentativo di gestire da sola, dopo la fuga dell’avvocato, il ‘business’ dell’immigrazione irregolare anche grazie a un piccolo imprenditore.
“Carmela incontra altri che stanno peggio di lei, ma non capisce come molti di noi che sono suoi compagni di lotta – racconta Sannino – per ignoranza e per abitudine pensi di sfruttarli, anziché unirti a loro. Questa confusione di coscienza civile e politica è una dimensione nella quale ormai nasciamo”. Una frase di Tarek, che “riconosce in lei una donna fragile”, annota il regista, forse la scuoterà: “Per voi noi siamo solo numeri”.
“Volevo raccontare come ci sono destini comuni tra marginali, italiani o migranti che siano – ribadisce Sannino – anziche’ unirsi per cambiare fanno quella che e’ una lotta interna. Anche l’imam accetta di sfruttare il canale illegale che li sfrutta, pur di ottenere permessi per la sua gente. Non lo farebbe mai se non capisse che è una chance, quasi l’unica strada possibile”. “E’ la legge che obbliga a fare questo – sottolinea – me lo ha spiegato e mostrato un amico che incontro sempre a piazza Garbaldi. Sfruttamento, lavoro nero, lavoro inesistente accumuna i poveri, napoletani e migranti che siano, un meccanismo perverso sotto gli occhi di tutti giustificato dalla legge”. Napoli è sullo sfondo, molto poco percepibile se non per due inquadrature del Vesuvio da lontano. I luoghi a sfondo della storia sono poco riconoscibili, perché questa “è una storia di tutte le marginalità italiane e non. Volevo luoghi non così identificabili. Napoli è presente, ma non si ‘mangia’ il film”. Il finale è aperto, affidato a un lungo sguardo che Carmela scambia con la figlia.
“Lei si ricostruisce una speranza – avverte Sannino – vuole dirle ‘vedo che stai bene e ti darò ancora questa serenità’. La bambina non guarda lei, in realtà, ma guarda noi per urlarci ‘in che mondo mi state facendo vivere’. Un rimprovero a noi adulti”. Altra cifra difficile della pellicola, la presenza sotto traccia delle istituzioni, forze dell’ordine e assistenti sociali. “Volevo essere rigoroso ed essenziale – dice il regista – le istituzioni stanno li’ a fare il loro dovere, con eccesso di zelo per esempio nel caso dei servizi sociali, ma perché siamo a Portici, dove storie come questa sono una dimensione più rara”.
“Ma occorre una giustificazione anche per l’esistenza delle case famiglia – affonda – anche questi luoghi hanno bisogno di ‘clienti’ e quindi c’è come un bisogno di allontanare bimbi da famiglie ‘irregolari’. Mi sono anche qui documentato, ho parlato con psicologi. E Carmela, come tutti i marginali, con le istituzioni ha sempre un rapporto schiacciante. Il proletariato marginale non ha possibilità di evolversi e di scegliere, e le istituzioni te la fanno pagare tutta per questioni di cultura e linguaggio”.
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