Sul settore della ristorazione italiana è calata la notte.
La chiusura forzata in seguito allo scoppio dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus ha significato per molti gestori l’inizio di una crisi di cui, ancora ora, non si vede la fine.
Non sono bastati gli spiragli di luce che erano stati lasciati trapelare dal DPCM del 26 aprile. Conte aveva annunciato: sì a consegne a domicilio e cibo d’asporto in tutte le regioni, ma locali chiusi almeno sino a fine maggio.
Per mesi, bar, ristoranti, pizzerie e il settore tutto ha dovuto appoggiarsi ai fondi stanziati dal Governo (che ancora latitano) e a quel poco di commercio consentito, con la formula delivery.
Dal 4 maggio, si è aperto il nuovo canale anche il nuovo canale del cibo d’asporto, nel DPCM si leggeva che “fermo resta l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, il divieto di consumare i prodotti all’interno dei locali e il divieto di sostare nelle immediate vicinanze degli stessi”.
La situazione attuale: se food delivery e asporto diventano un modello
Provando a ragionare, per quale motivo una persona dovrebbe preferire l’acquisto d’asporto rispetto alla consegna a domicilio, se poi sarà comunque costretto a consumare il cibo in casa propria?
Una ragione può essere quella dell’abitudine, un’altra è quella che andando a prendere la cena si approfitta per fare una passeggiata.
D’altronde la soluzione del food delivery rappresenta una buona fonte di guadagno solo per alcuni gestori, quelli che avevano già messo a punto il sistema prima del Covid-19.
Secondo la FIPE, Federazione Italiana Pubblici Esercizi, l’85% dei gestori non ritiene il delivery una buona ragione per restare aperti. Si tratta di un sondaggio interno agli iscritti, quindi non vanno inclusi tutti i locali d’Italia.
Va aggiunto che il 5% offriva già questo servizio e ha notato un aumento delle vendite, il 10% lo ha implementato dopo il lockdown. Non per questo quell’85% va bollato come un insieme di gestori “capricciosi” che non si sono voluti adeguare: nella maggior parte dei casi si tratta di una scelta ben ponderata.
Chi possiede un ristorante rinomato difficilmente considera l’opzione delivery, e non vede perché cominciare in piena crisi. Chi non ha mai offerto questo servizio si rende conto che implementarlo adesso significa rispondere a un protocollo di sicurezza di tutto rispetto. Il vademecum, rispondente alle direttive del Ministero della Salute, è stato riassunto dalla Assodelivery, l’associazione guida per il settore delle consegne a domicilio.
Questo prevede:
- uso di prodotti igienizzanti;
- scelta di un’area destinata al ritiro delle pietanze, da tenere sempre sanificata;
- preparazione, ritiro e consegna delle pietanze sempre a distanza di sicurezza ed evitando il contatto diretto;
- utilizzo, per il trasporto, di contenitori isotermici a norma di legge o, meglio, di contenitori specifici per il cibo da asporto (realizzati in materiale non solo isolanti, ma anche idonei al contatto con gli alimenti e riciclabili, onde ridurne l’impatto ambientale).
Insomma, per chi ha già inserito nella routine lavorativa del proprio locale questa opzione, si tratta di aggiungere accorgimenti. Per chi non lo ha mai fatto, invece, il rischio è quello di trovarsi di fronte a un’organizzazione spinosa.
Per i motivi che abbiamo elencato, va da sé che né asporto, né consegne rappresentano un palliativo davvero efficace per il settore e quello che doveva sembrare un passo verso la riapertura, il contenuto del DCPM, si è tramutato in un’ulteriore fonte di polemiche.
Articolo pubblicato il giorno 16 Giugno 2020 - 21:59 / di Cronache della Campania