Prima della riforma elettorale, e affianco ad essa, è infatti necessario cambiare prassi e culture, senza cedere all’idea consolatoria che, eliminate alcune mele marce, tutto possa considerarsi definitivamente risolto.
L’attuale legge elettorale, nata nel 2002 con lo scopo di ridurre il peso delle correnti, si è rivelata funzionale al rafforzamento del potere degli apparati delle correnti, nella selezione dei candidati. Questa legge non troverà magistrati disposti a difenderla, se non coloro che l’hanno sfruttata per creare potentati e ottenere così due effetti: rafforzare le correnti come centri di potere, eliminarle come fucine di idee e di visioni della giustizia.
Tuttavia, per immaginare la legge elettorale del Consiglio, occorre prima di tutto immaginare il Consiglio che vogliamo.
Non pensiamo, da questo punto di vista, che l’autogoverno debba essere ridotto a gestione di nomine. Al contrario, riteniamo che il Consiglio debba tornare ad essere il baluardo dell’indipendenza della magistratura e un luogo di confronto tra le varie idee sulla giurisdizione, a partire dai pareri sull’attività normativa, dalle relazioni sullo stato della giustizia, dalle pratiche a tutela e dal delicatissimo settore dei procedimenti di incompatibilità ambientale.
Coerentemente con questo obiettivo, riteniamo che ogni legge elettorale che si prefigga lo scopo di inoculare nell’autogoverno l’idea della governabilità e del bipolarismo sia pericolosa. L’autogoverno, infatti, non ha bisogno di governabilità, ma del confronto, trasparente e dialettico, tra idee diverse e contrapposte. Né ha bisogno di ripetere le logiche della politica, con bipolarismi fittizi che avrebbero quale unico scopo quello di far leggere in termini di competizione gli esiti di ogni delibera contrastata.
Sappiamo, poi, quali sono gli effetti deleteri dei sistemi maggioritari, binominali o uninominali a doppio turno: favorire gli accordi tra i gruppi, le desistenze e i “mercati” tra un turno e l’altro. Non è un caso, infatti, che la logica maggioritaria, storicamente, si sia dimostrata una logica di gestione del potere e di ricerca del consenso per il consenso: questo ha determinato il sostanziale oscuramento degli ideali che erano alla base della scelta dei magistrati di riunirsi per idee e progetti sulla giurisdizione.
Abbiamo bisogno dell’esatto contrario, di un sistema elettorale che abbandoni la logica personalistica e che risponda, al massimo grado, a tre diverse esigenze: garantire la rappresentatività delle idee di tutti, dentro e fuori dai gruppi, non mortificando le diversità di visione della giurisdizione; allargare la partecipazione e smarcarla dall’ipoteca delle correnti, restituendo potere di scelta al magistrato elettore; assicurare che sia data finalmente risposta alla questione, non più eludibile, della corretta rappresentanza di genere. A fronte di una presenza di donne superiore al 50% all’interno della magistratura, non è più pensabile, infatti, che il sistema non tenga in considerazione questo dato. Né è possibile parlare di rappresentatività del CSM se permane l’attuale situazione di grave disparità dovuta alla sotto-rappresentanza di genere al suo interno.
Una riforma del sistema elettorale dovrebbe, quindi, rispondere a queste esigenze: disegnare un modello che rimetta al centro la scelta dei magistrati, che dia cittadinanza alla pluralità delle idee e alle diverse professionalità e che introduca meccanismi di riequilibrio, in modo da realizzare, anche nel nostro organo di autogoverno, una “democrazia paritaria”.
Sarà una scelta importante, poiché siamo comunque convinti che il sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura concorrerà a disegnare il governo della magistratura che vorremo, così come i suoi comportamenti, la sua cultura e la sua visione della giurisdizione.
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