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Vita d’artista e pandemia. Intervista a Clelia e Orazio: due arti diverse in una stessa coppia

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L’arte al tempo del Covid -19 non è solo statistica o bilancio. Dietro quella cifra ‘x’ – purtroppo in aumento -, dietro i sipari calati e le luci spente, ci sono uomini e donne di diversa età, che hanno fatto di una passione il senso della vita stessa.

 

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Per tantissimi l’arte riempie l’anima, è nutrimento e divulgazione culturale ma anche stile di vita e percorso di crescita personale. Dietro quei numeri riportati dagli organi di informazione, in continuo aggiornamento, c’è quindi tutto un mondo fatto di sentimenti e condivisioni, abitudini e relazioni.

Ma come l’artista ha vissuto questo tempo di sospensione e come vive l’attesa del futuro prossimo, ce lo siamo fatti raccontare non da uno bensì da due artisti che dividono casa e progetti di vita e sono impegnati in due espressioni dell’arte molto diverse tra loro.

Lei, Clelia Leboeuf , è una più che trentenne illustratrice freelance, un’artista visiva che sviluppa anche progetti indipendenti.
Lui, Orazio Cerino, è un neo quarantenne attore “con tutti i pro e i contro che questo comporta”.
“E sono un autore. Anzi, forse ho iniziato prima come autore e poi la cosa mi è sfuggita di mano”, spiega Orazio.

Come e quanto è cambiata la vostra giornata tipo rispetto a prima della pandemia?
Clelia: “A me personalmente non è cambiato molto. Il mio studio è a casa, dove già passavo parecchie ore. Non così tante! C’erano le commissioni da fare, qualche appuntamento. Certo la percezione del tempo in casa nei giorni di isolamento è totalmente cambiata”.
Orazio: “Rispetto a prima passo molto più tempo in casa. Spesso ero fuori per lavoro anche per settimane, anche se cercavo sempre di riservarmi del tempo da trascorrere a casa”.

Quale l’aspetto che più vi manca del vostro lavoro?
Per Clelia “La possibilità di progettare. Al momento é difficile emotivamente e praticamente” mentre a Orazio manca il pubblico. “Beneficiario di tutti i nostri sforzi e del nostro lavoro. Mi manca il dibattito con i ragazzi delle scuole con cui c’intrattenevamo post spettacolo. La loro genuinità e la loro curiosità che ti riportano alla realtà e ti ricordano sempre con quale sguardo osservare il mondo. E mi manca l’instabile incertezza del mio lavoro”.

Come avete visto questa trasposizione web di tutto l’indotto culturale. Cioè, che ne pensate di tutti questi video, istituzionali e non, sui social in nome de “La cultura non si ferma”?
Clelia: “Che la cultura non si fermi è una necessità, specialmente in un periodo storico difficile come il nostro.
Io stessa ho sfruttato questa possibilità per vedere cose che non avrei visto, seguito incontri interessanti e mi sono emozionata nel guardare concerti da camere separate. Io l’ho vissuto però come uno stato d’emergenza.
La mia vera paura è che questa trasposizione ci distolga dal punto più importante: come ricomincerà a ripartire la cultura per davvero? Perché lo sappiamo, l’arte in tutte le sue forme si incontra veramente solo quando viviamo in prima persona l’esperienza.
Quali tutele? Quali soluzioni? Spero arrivino presto le risposte che tanti meritano”.
Orazio: “Un quadro visto in tv non dà lo stesso effetto dello stesso quadro visto dal vivo. E questo vale per quasi tutte le discipline artistiche e soprattutto per il teatro. L’idea di recitare uno spettacolo nato per il teatro tra gli arredi domestici e senza la partecipazione fondamentale del pubblico è una cosa che mi viene difficile da prendere in considerazione. Anche in virtù del fatto che uno spettacolo nato per andare in scena in un teatro, è stato costruito con un uso del corpo tale da tenere gli spettatori per le briglia. Se un fantino dovesse guidare una motocicletta non muoverebbe il corpo come se fosse sopra un cavallo. Naturalmente ci sono state delle iniziative molto interessanti e belle che ho seguito con grande interesse, ma non vorrei che un pubblico che già a fatica viene a teatro e sta buon per un’ora, un’ora e mezza, si abituasse ancora di più a stare a casa e a gestire il tasto play-pause a seconda di come gli pare”.

Cosa vi resterà per sempre di questa inedita ‘esperienza’?
Clelia: “A parte l’aver imparato a impastare acqua e farina, che per me è stata un’esperienza mistica, non dimenticherò mai questo periodo fatto di momenti terribilmente bui: la sofferenza delle persone, la paura, la lontananza dagli affetti più cari… ma anche di momenti pieni di luce, come ad esempio il rafforzare in me l’idea che ci siano poche cose davvero necessarie.
Com’era prima non mi piaceva, soffro nel vedere che forse la società incapperà negli stessi errori, ma non smetterò di credere che si possa cambiare questo mondo”.
Orazio: “Il tempo sospeso. La sensazione di aver potuto guardare al rallenty, in maniera nitida, immagini che prima scorrevano veloci e confuse. Lo dico con il massimo rispetto e cordoglio per le vittime e le persone che hanno sofferto e che ancora soffrono. Forse perché sono stato chiuso in casa per tutto il lockdown, forse perché non ho avuto affetti cari travolti da questa pandemia, ma aver vissuto gli ultimi due mesi potendo dedicare del tempo a me stesso e alla mia compagna, potendo fare cose per cui prima a volte faticavo a trovare tempo, è stato un lusso che difficilmente si ripresenterà.
E la sensazione di fragilità al cospetto di eventi del genere, ma anche di forza per superarli”.

Relativamente alle vostre diverse attività artistiche, avete proposte per il futuro? Cosa vi aspettate? Quale il vostro augurio per la ripresa di tutto il settore artistico culturale?

Clelia: “Mi auguro che venga dato il giusto valore alle professioni artistiche e creative.
Che vengano rispettate e tutelate.
A pensarci bene, durante tutto il periodo dell’isolamento gli artisti di ogni disciplina, hanno continuato a lavorare per intrattenere, lenire, comunicare.
questo sottolinea ancora di più quanto sia necessario questo lavoro, e non dovremmo puntualizzarlo ogni volta.”

Orazio: “Il mio augurio e la mia proposta per il futuro, rispetto alla mia attività, è che tutte le parole dette in questi mesi possano essere tradotte in azioni da chi ne ha effettivamente la possibilità e che i direttori dei teatri grandi ricomincino a girare per le sale più piccole alla ricerca di spettacoli interessanti e di attori da tenere d’occhio. Mi auguro che non ci sia più un teatro considerato IN e un altro considerato OFF, in cui chi ne fa parte deve faticare il doppio, a volte a parità di meriti, per riuscire a lavorare nelle giuste condizioni. Spero che si parli di teatro e basta, senza distinzioni, ovviamente parliamo del mondo professionistico.
E mi auguro infine che gli attori la smettano di combattere una guerra tra poveri per accaparrarsi un ruolo, una figurazione speciale o una battuta, accettando condizioni di lavoro indegne di tale definizione. Se non ci rendiamo conto che noi per primi dobbiamo pretendere rispetto, gli altri non ce lo daranno mai”.


Articolo pubblicato il giorno 12 Maggio 2020 - 16:05


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