Una banda di pregiudicati campani, inutilmente sottoposti a misure di prevenzione e fogli di via, per anni a partire almeno dal 2013, ha costretto con la forza gli automobilisti che si fermavano sulla A1 negli Autogrill tra Piacenza e Milano a comprare nelle piazzole di sosta calzini di pessima qualità a prezzi esorbitanti – anche 70 euro al paio -, e le minacce, in alcuni casi sfociate in aggressioni, avevano bersagliato anche i direttori e i funzionari della sicurezza dei punti di ristoro che hanno cercato di mandarli via. A dire che si tratta di una banda organizzata – che ha preso di mira soprattutto gli Autogrill di Somaglia (Lodi), San Zenone al Lambro (Milano) e Fiorenzuola d’Adda (Piacenza) – e non di soggetti ‘slegati’ che agiscono in modo “estemporaneo”, è la Cassazione che ha accolto il ricorso del pm di Piacenza Matteo Centini contro l’ordinanza del Tribunale di Bologna che in funzione di giudice del riesame, lo scorso due settembre, ha annullato gli ordini di carcerazione per nove persone collegate tra loro e dedite al racket del calzino ritenendo non provata l’associazione per delinquere. Invece, secondo gli ‘ermellini’ ci sono tutti gli elementi per dire che si tratta di una banda organizzata, come motivato in prima battuta dal gip di Piacenza che il sei agosto scorso li aveva messi tutti in carcere, e il riesame di Bologna “non risulta aver fatto buon governo dei principi di diritto” sui clan delinquenziali. In proposito, i supremi giudici evidenziano che agli atti ci sono cinque delitti di estorsione consumata e tentata, uno di danneggiamento aggravato dal metodo mafioso e “perlopiù in palese collegamento con una attività di vendita di calzini che risulterebbe essere soltanto la modalità di approccio per ottenere” soldi dagli automobilisti taglieggiati – numerose le denunce negli anni – “sulla base di molestie che spesso sfociavano in violenza e minaccia”. Oltre ai calzini, la banda voleva soldi per la sosta delle macchine. Inoltre la Cassazione ricorda che c’e’ la prova di “risalenti e protratte relazioni degli indagati” – tutti di Napoli e del napoletano, eccetto uno nato a Dortmund – che avevano “coordinato le loro attività” in modo da non essere mai più di tre nello stesso luogo e per “sottrarsi ai controlli della polizia”. Quella che per la Cassazione e’ una banda organizzata – cosa della quale adesso dovrà prendere atto anche il Tribunale di Bologna rivedendo la sua ordinanza – concordava anche “la destinazione dei proventi e la spartizione”. Insieme i nove indagati gestivano, tra l’altro, “il pagamento delle spese sostenute per gli spostamenti” dalla Campania. Tutti questi elementi, conclude la Cassazione (sentenze 8120, 8124 e 8125), “permettono di evidenziare la presenza di una pluralità di illeciti commessi da persone pacificamente collegate, che ben conoscevano l’attività reciproca come emerge dalle intercettazioni telefoniche, che rispondevano alle direttive dettate da alcuni di loro, che spartivano i profitti delle loro attività”.
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