Gilberto Giorgio Guido Cavallini, 67 anni, ex terrorista dei Nuclei Armati Rivoluzionari, è il quarto uomo della Strage della stazione. Lo ha stabilito la Corte di assise di Bologna: nell’anno del quarantesimo anniversario dell’attentato del 2 agosto 1980, 85 morti e 200 feriti, i giudici hanno pronunciato una condanna all’ergastolo, come chiesto dalla pubblica accusa. A questa decisione si è arrivati dopo sei ore e mezza di camera di consiglio, al termine di un processo durato quasi due anni, 40 udienze e una cinquantina di testimoni ascoltati. Già condannato a otto ergastoli per vari delitti, Cavallini è ora in semilibertà a Terni. Difficilmente sconterà la nuova condanna al carcere a vita, quando e se sarà definitiva, visti i 37 anni in detenzione. Ma la sentenza e’ comunque un tassello in continuità con la verità giudiziaria che vede come responsabili gli altri tre Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, compagni d’armi di Cavallini detto ‘il negro’, il meno giovane della banda. “Di quello che non ho fatto non mi posso pentire. Dico anche a nome dei miei compagni di gruppo che non abbiamo da chiedere perdono a nessuno per quanto successo il 2 agosto 1980. Non siamo noi che dobbiamo abbassare gli occhi a Bologna”, ha ribadito l’imputato, nelle ultime dichiarazioni spontanee alla Corte, in coerenza con quanto sostenuto dai Nar, che nel tempo hanno ammesso i reati commessi in gioventù, mai l’attentato di Bologna. Mambro, Fioravanti e Ciavardini hanno avuto modo di riproclamarsi innocenti nel corso di questo lungo dibattimento in cui, come in una sorta di remake giudiziario, sono stati chiamati a testimoniare e come loro tanti altri protagonisti della vicenda, ex militanti, pentiti, conoscenti del gruppo, che hanno rivisitato il contesto intorno al quale sarebbe maturato l’attentato più sanguinario del dopoguerra italiano. Un’istruttoria ampia, dove c’è stato spazio per una perizia sugli esplosivi che ha portato ad analizzare le macerie della stazione, dimenticate in una caserma della periferia. E per un accertamento genetico che ha visto la riesumazione della bara di una vittima, Maria Fresu, scoprendo che il dna dei resti contenuti nel feretro non era quello della giovane donna morta. E’ questo un punto su cui ha insistito la difesa Cavallini seminando dubbi e proponendo piste alternative, definendo “inumano” un processo a 40 anni dai fatti. Bisognerà inoltre capire che ragionamento hanno fatto i giudici riqualificando il reato, facendo cadere la finalità di attentare alla sicurezza dello Stato. La Procura bolognese ha invece proposto una rilettura in coerenza con le sentenze passate in giudicato, concentrandosi sul concorso, cioè sul supporto, quantomeno logistico, che Cavallini diede ai tre, e sottolineando, tra l’altro, l’assenza di un alibi per i Nar. Un ruolo da protagonisti è stato quello delle parti civili, cioè i familiari delle vittime, sempre numerosi a seguire le udienze, e oggi soddisfatti per l’esito. I loro avvocati hanno più volte cercato di ampliare lo sguardo a presunti legami tra i Nar e apparati deviati dello Stato. “Il prossimo passaggio – ha detto l’avvocato Andrea Speranzoni – sarà un pezzo di verità importantissima su chi ha finanziato, favorito, coordinato e ottimizzato il risultato politico della Strage”. E cioè il tema dei mandanti, al centro di un’inchiesta avocata dalla Procura generale, che sta per tirare le fila con alcuni indagati. Potrebbe essere un ulteriore passo verso la verità in uno dei grandi mistero italiani.
Articolo pubblicato il giorno 9 Gennaio 2020 - 19:51