La Corte di appello di Napoli – IV sezione penale – ha messo la parola fine ad una complessa vicenda giudiziaria, assolvendo, dopo un’estenuante battaglia giudiziaria, il gioielliere Vincenzo Capezzuto da tutte le accuse. Costui era ritenuto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli colui che avrebbe rifornito di droga le organizzazioni napoletane dedite al narcotraffico per ben dieci anni, dal 2001 al 2011, promuovendo, dirigendo ed organizzando la vasta associazione internazionale che contava un numero impressionante di affiliati, ben quarantadue. L’indagine complessiva fu curata incessantemente e con successo dalla direzione distrettuale antimafia e dimostrò il lusso smodato a cui erano dediti i narcotrafficanti. Infatti, furono disposti sequestri per beni aventi valore di decine di milioni di euro, tra cui yacht, ville, appartamenti e numerosissimi conti correnti.
Viceversa, secondo la linea difensiva, Capezzuto sarebbe solo un brillante imprenditore del settore dell’oro e dei preziosi, ingiustamente accusato da pentiti inaffidabili, il tutto condito da intercettazioni dal contenuto equivoco. Momento centrale della vicenda processuale va ravvisato innanzitutto in quello nel quale il capo clan effettuò una scelta diversa da quella assunta da tutti gli altri, quella di essere giudicato in sede di giudizio ordinario.Ebbene, è stato premiato il lavoro difensivo da tempo portato avanti dall’avvocato Luigi Petrillo del Foro di Avellino, come sono risultate vincenti le scelte di Vincenzo Capezzuto, il quale ebbe inizialmente ad affidarsi al noto avvocato Giulia Buongiorno, per poi rimettersi alle sapienti “cure giudiziarie“ dell’avvocato Dario Vannetiello, le quali oggi hanno decisamente contribuito alla clamorosa assoluzione, a fronte di una iniziale condanna in primo grado ad anni 24 di reclusione.
La difesa dell’accusato, all’esito della battaglia giudiziaria, ha ottenuto un risultato di straordinaria importanza, alla luce sia della gravità delle accuse, sia della caratura dell’accusato, sia della pregressa latitanza di cui si è reso protagonista Vincenzo Capezzuto, braccato il sette giugno 2016, dopo estenuanti ricerche, nell’elegante centro di Vienna, grazie ad un mandato di arresto internazionale.
Eppure il compito dei penalisti era reso oltremodo complesso da una ulteriore ragione : sia l’altro capo della compagine, Alessandro Capezzuto, sia tutte le altre decine di affiliati, erano stati da tempo già tutti irrevocabilmente condannati con sentenza emessa in primo grado dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Napoli – dott. Giordano -, decisione questa che, ad eccezione di contenute riforme parziali sulla pena, era stata confermata dalla Corte di appello di Napoli in data 17 maggio del 2015.
Come si ricorderà, all’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Napoli, presieduto dal dott. Barbarano e che vide come relatrice la dott.ssa Primavera, condannò il ritenuto narcotrafficante internazionale ad anni 24 di reclusione, grazie alle accuse provenienti da numerosi collaboratori di giustizia nonché valorizzando il contenuto di alcuni colloqui carcerari con il fratello Alessandro, con istruttoria svoltosi in costanza della latitanza di Capezzuto.
Nel processo di appello l’accusato fece sentire la sua voce, protestando la sua innocenza, evidenziando la sua ininterrotta dedizione lavorativa nel settore dell’oro e dei preziosi, con la sua attività oramai radicatasi nella città austriaca, ma le accuse, pur ridimensionate, ressero anche nel giudizio di secondo grado.
Ma il colpo di grazia all’impianto accusatorio giunse in data 8 maggio del 19 con la decisione della Suprema Corte. Infatti, in totale accoglimento del diffuso ricorso proposto dagli avvocati Dario Vannetiello e Luigi Petrillo, la terza sezione penale della Corte di Cassazione annullò in toto la sentenza di condanna inflitta a Capezzuto Vincenzo, sia rispetto al gravissimo reato di promozione/direzione/organizzazione della associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, sia rispetto agli specifici episodi di ingente importazione in Italia di cocaina, hashish e marijuana.
Il fine lavoro difensivo fece così incrinare il castello delle accuse, determinando la regressione del procedimento in appello, circostanza questa che, nel maggio dello scorso anno, consentì alla difesa di invocare ed ottenere con successo anche la scarcerazione del gioielliere per decorrenza dei termini. E così, nel giudizio di rinvio imposto dalla Suprema Corte e svoltosi innanzi alla quarta sezione della Corte di appello di Napoli, nonostante la pluralità delle prove a carico, rappresentate sia da numerosi collaboratori di giustizia, sia da intercettazioni ambientali, sia dalla irrevocabile sentenza di condanna emessa nei confronti di tutti gli altri uomini di vertice nonché dei partecipi della associazione, la difesa del gioielliere è riuscita ad ottenere un risultato sorprendente : la totale assoluzione dalle plurime e gravi accuse mosse a Vincenzo Capezzuto. Alla fine hanno fatto breccia sui giudici partenopei le ragioni di diritto formulate negli articolati atti difensivi, largamente fondati su questioni di mera forma, i cosiddetti cavilli.
E cosi si è giunti ad un risultato, forse unico nella storia giudiziaria, che non è eccesivo definire un paradosso : sono stati condannati tutti coloro, ben quarantuno persone, che hanno fatto parte della vasta associazione di narcotraffico, ad eccezione di un solo uomo, proprio ed addirittura il capo clan Vincenzo Capezzuto. Un caso giudiziario che indubbiamente farà ancora discutere.
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