“Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome”. Lo scrive su Facebook Pietro Orlandi, fratello di Emanuela Orlandi, la 15enne svanita nel nulla il 22 giugno del 1983, a Roma, rilanciando l’intervista di monsignor Carlo Maria Viganò, sul sito di Aldo Maria Valli. Viganò lavorava nella segreteria di Stato Vaticana all’epoca della scomparsa di Emanuela. “Quella sera mi trovavo in ufficio in segreteria di Stato alla terza loggia insieme con monsignor Sandri, mentre il sostituto era assente”, racconta. “Erano circa le 20, o forse più tardi, quando ricevetti una telefonata da padre Romeo Panciroli, allora direttore della sala stampa vaticana, il quale mi annunciò che era giunta, appunto alla sala stampa, una telefonata anonima che annunciava che Emanuela Orlandi era stata rapita – continua Viganò – Padre Panciroli mi disse che mi avrebbe inviato immediatamente via fax un testo con il contenuto della telefonata”. In quel testo, spiega, “si affermava che Emanuela Orlandi era detenuta da loro e che la sua liberazione era collegata a una richiesta, il cui adempimento non necessariamente dipendeva dalla volontà della Santa Sede. Si trattava di un messaggio formulato in termini precisi e ben costruito. Esso è indubbiamente reperibile nell’archivio della segreteria di Stato”. “Poiché il sostituto non era in ufficio – racconta mons. Viganò – mi recai immediatamente alla seconda sezione, quella che oggi si chiama sezione per i rapporti con gli Stati. L’arcivescovo Achille Silvestrini (futuro cardinale, morto il 29 agosto scorso, ndr) lesse il testo e commentò che secondo lui si trattava dello scherzo di pessimo gusto di qualche squilibrato. Da parte mia gli feci notare che il testo era redatto in termini molto rigorosi e scritto in modo professionale e che quindi doveva essere preso in seria considerazione. Mi venne in mente che il contenuto della telefonata anonima presentava una strana coincidenza con un’altra vicenda. Poco tempo prima era giunta in segreteria di Stato una lettera, firmata da un sedicente rifugiato di un paese dell’Est Europa, il quale diceva di trovarsi in un campo profughi in Friuli e chiedeva asilo politico in Vaticano. Alla lettera allegava una sua fotografia formato tessera e un certificato della sua iscrizione al medesimo istituto di musica sacra frequentato da Emanuela Orlandi. Erano le dieci di sera passate e con monsignor Sandri chiamammo immediatamente il responsabile dell’archivio perché ci desse quel documento, che consegnammo in copia quella sera stessa al dottor Volpe, dell’ispettorato di pubblica sicurezza presso il Vaticano, perché facesse le opportune indagini”. “Nel mio ruolo di segretario non mi fu dato sapere quali iniziative abbia preso nell’immediato monsignor Silvestrini, ma non ho dubbi che ne informò il sostituto e il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli e anche papa Giovanni Paolo II”, racconta ancora mons. Viganò. Le reazioni furono di viva “preoccupazione e di grande impegno per fare il possibile per salvare Emanuela”. “Ricevetti anch’io alcune telefonate da quello che i media chiamarono ‘l’americano’ – dice ancora Viganò – Le telefonate erano in italiano, ma dalla pronuncia di quell’uomo capii che non si trattava di un americano; piuttosto di qualcuno che aveva inflessioni proprie dei maltesi. L’interlocutore si limitava a chiedere di voler parlare unicamente con il cardinale Casaroli e fu quello il motivo per cui a un certo punto fu creata una linea riservata. Da parte nostra fu fatto tutto il possibile per far sì che questo interlocutore potesse parlare con Casaroli. Vennero fissati diverse volte appuntamenti telefonici. Ma il cardinale rimase in attesa inutilmente, perché quell’individuo non rispettava mai l’orario stabilito e, forse per evitare che venisse identificata la località da dove proveniva la telefonata, richiamava magari un’ora o due ore dopo”. “Il sostituto ebbe contatti anche con il magistrato italiano responsabile dell’antiterrorismo – continua – Per evitare che quell’alto funzionario (di cui purtroppo non ricordo il nome) fosse visto entrare in Vaticano, un incontro ebbe luogo alla nunziatura apostolica in via Po – spiega – Accompagnai il sostituto a quell’incontro, in cui fu fissato un appuntamento telefonico in segreteria di Stato per le dieci di sera di un giorno determinato. Quando venne il giorno, alla presenza del magistrato, restammo in attesa della telefonata fin dopo le 23 nel mio ufficio, assieme al sostituto. Naturalmente tutto era stato predisposto dai servizi italiani per intercettare la provenienza della telefonata, ma fu inutile. La telefonata arrivò dopo che il magistrato fu uscito dal Vaticano, tanto che lui, il magistrato, si disse convinto di avere a che fare con i servizi segreti di un altro Stato che conoscevano le sue mosse e ci confidò che per precauzione cambiò immediatamente i membri della sua scorta”.
Articolo pubblicato il giorno 1 Novembre 2019 - 19:49