Si è pentito a luglio e le sue dichiarazioni sono state fondamentali per ricostruire lo scenario nel quale è maturato l’agguato costato la vita a Luigi Mignano, 57enne cognato del boss rivale Ciro Rinaldi (era sposato con la sorella del capoclan Maria), avvenuto il 9 aprile del 2019 in via Ravello, a San Giovanni a Teduccio, zona orientale di Napoli. I killer fecero fuoco a poca distanza dall’ingresso di una scuola elementare e davanti agli occhi terrorizzati del nipote di 4 anni della vittima. Il boss che ha ordinato quell’agguato, Umberto D’Amico, detto o lione da luglio ha iniziato a raccontare ai pm della Dda napoletana i retroscena non solo di quel raid omicida ma di tanti altri commessi nella ‘guerra’ tra i Mazzarella e i Rinaldi per il controllo delle piazze di spaccio e delle estorsioni nella zona Orientale e anche al centro di Napoli. Sul suo cellulare gli investigatori avevano scaricato uno spyware e lo stavano intercettando e seguendo tutti i suoi movimenti, Interrogato l’8 luglio scorso dai magistrati, ha subito ammesso di essere il mandante del delitto e guardando le immagini di sorveglianza della zona ha dato un nome a ogni volto che compariva negli schermi. Il commando dei sicari sapeva anche che nell’auto sarebbe salito anche un bambino di 4 anni, lo avevano visto e continuarono a sparare, anche contro la vettura. Emerge tutta l’efferatezza di un gruppo di fuoco che non ha mostrato nessuna pietà dall’ordinanza cautelare con la quale il gip di Napoli Lucia De Micco ha disposto il carcere per due presunti appartenenti al clan D’Amico-Mazzarella, Giovanni Salomone, 52 anni e Giovanni Borrelli, detto giuann che llent, 50 anni. Il primo indicato dal pentito di essere l’uomo che aveva rubato lo scooter usato per il delitto e di averlo posizionato sul luogo dell’agguato, il secondo riarrestato dopo essere stato scarcerato: aveva procurato l’arma e l’aveva tagliata a pezzi dopo il raid. Il suo soprannome e’ infatti ‘il fabbro’. C’eè un terzo indagato, sottrattosi all’arresto e, secondo il pentito D’Amico, era colui che fornì l’appoggio logistico ai sicari, procurando loro un’auto per scappare subito dopo l’agguato.
Il commando dei killer quindi sapeva che nell’auto c’era anche un bambino di 4 anni, lo avevano visto. Ciononostante continuarono a sparare, anche contro la vettura dove c’era il nipotino di quattro della vittima, il quale, per ripararsi, si era nascosto sotto il sediolino anteriore del lato passeggero. Nel raid rimase ferito a una gamba Pasquale, padre del bambino e figlio della vittima. Da una intercettazione ambientale, inoltre, registrata negli uffici della Questura di Napoli,(inserita nell’ordinanza cautelare emessa lo scorso 6 maggio con la quale vennero arrestati le prime cinque persone ritenute coinvolte nell’agguato a Mignano), gli investigatori colgono anche un altro particolare raccapricciante: il raid scattò con l’intenzione di colpire tutti i loro avversari presenti, e quindi anche il bambino. A Borelli viene contestato, tra le altre cose, di avere fatto sparire l’arma usata per l’agguato, una calibro 9, che, secondo un’altra intercettazione, sarebbe stata tagliata in vari pezzi con una smerigliatrice. A procurare la pistola, tra le altre cose, fu Salomone a cui viene anche contestato di avere partecipato alle fasi decisionali ed esecutive dell’omicidio. Lo scorso 6 maggio vennero fermati, per l’omicidio di Mignano, Umberto Luongo, Gennaro Improta, Salvatore Autiero, Ciro Terracciano (quest’ultimo colui che sparò ai Mignano) e il boss Umberto D’Amico, detto “o’ lione”, sul cui cellulare gli investigatori avevano scaricato uno spyware. Per tutti venne poi confermata la custodia cautelare in carcere.
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