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‘Personne’, la personale di Maria Adele Del Vecchio alla galleria Tiziana Di Caro di Napoli

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La galleria Tiziana Di Caro presenta la seconda personale di Maria Adele Del Vecchio, dal titolo “Personne”. La mostra, inaugurata lo scorso mercoledì 5 giugno, si compone di opere realizzate in esclusiva per gli spazi della galleria. Il lavoro di Maria Adele Del Vecchio si caratterizza per una produzione composita: i temi che tratta vanno dalla politica alla letteratura, dalla storia alla filosofia. Questa eterogeneità è, allo stesso tempo, contraddetta da un eterno ritorno dei motivi e dei concetti che, pur ripresentandosi di volta in volta sotto forma di frammenti diversificati, creano un discorso infine unitario. Il titolo, “Personne”, fa riferimento alla riflessione costante dell’artista sull’identità: la propria, quella dell’altro e quella dell’oggetto proposto. Il termine, che in francese significa “nessuno” , si contrappone per assonanza all’italiano persona (person in inglese), ossia “qualcuno”. Poche lettere che rimandano all’assenza quanto alla presenza. La parola, nella sua natura linguistica prima ancora che segnica, è il mezzo creativo privilegiato dall’artista, la cui volontà è quella di sottolineare l’impossibilità di rinunciare ad essa, così come alla sua negazione, al linguaggio in quanto strumento di libertà ed identificazione culturale, politica e sociale. Drowning (2011) è un autoritratto fotografico. Una piscina in primo piano, vuota e trascurata, polverosa e sbiadita, rimanda al divenire, all’inesorabile scorrere del tempo in cui l’essere rischia di annegare. In lontananza compare, come una sagoma sfuocata, la figura dell’artista. Sedicente (2006) è uno specchio che mette in dubbio, in un esercizio cartesiano, la veridicità del riconoscere la propria immagine riflessa. L’interrogativo che opprime è allo stesso tempo ciò che libera l’uomo dal mero narcisismo e da ogni compito predeterminato. II cuore della mostra è costituito dal ciclo di lavori inediti Il fuoco e il racconto (2019) che rende omaggio all’omonima raccolta di saggi del filosofo Giorgio Agamben, non soltanto nel titolo, ma nell’espressione concettuale e creativa. L’idea di creazione – appunto – qui viene sovvertita: essa nasce dalla possibilità di non essere, dalla sua non-potenza. Si racconta in funzione di un bisogno, di qualcosa che manca e l’atto mancante è la chiave di volta per la lettura dei tre testi critici e poetici di cui l’opera si compone, incentrati su tre diverse figure femminili e i cui rispettivi titoli sono Una madre, Una peripatetica, Una strega. Memorie di donne, di madri e figlie, in uno scambio costante di ruoli e identità. Papapaparola (2012- oggi) approfondisce la narrazione attraverso l’azione ripetuta del ritagliare da un libro particolarmente significativo per l’artista, i termini parola e parole, per poi creare un collage che lascia visibile solo la sillaba iniziale pa, fino all’ultimo ritaglio che va a comporre il vocabolo per esteso. L’opera palesa innanzitutto la sua dimensione fonetica, illustrando il processo di articolazione del suono; dal primo, quello ripetuto, emesso dal bambino, fino alla sua compiuta evoluzione nell’uso della lingua, evidenziando il passaggio dell’essere umano dallo stato di natura a quello di cultura. Con Untitled (2004), una pistola sulla quale poggia una candela consumata, l’artista costruisce una vera e propria scultura narrativa, ispirata ad eventi di cronaca. L’installazione al neon, Personne (2019), che riproduce il titolo della mostra, sottolinea quanto la parola sia qui non solo strumento di comunicazione, ma anche oggetto, opera a sé. L’intero lavoro testimonia la complessità del rapporto dell’artista con la scrittura: una relazione svelata nella sua sottrazione o, quantomeno, nella difficoltà della sua decodificazione, poiché è solo nell’in-potenza, nell’apertura alle sue infinite possibilità, che l’opera diventa atto.


Articolo pubblicato il giorno 18 Luglio 2019 - 09:48

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