Napoli. Sta facendo discutere sui social la lettera pubblicata da una degente dell’ospedale Fatebenefratelli di Napoli in cui lamenta il trattamento tutt’altro che “umano” ricevuto in una struttura che dovrebbe essere di eccellenza e dove la stessa è stata fatta dormire in lenzuola sporche di sangue e puzzolenti. La signora racconta in un lunghissimo post corredato da foto la sua “dissavventura” nella struttura ospedaliere di via Manzoni. “Ringrazio i coniugi … per permettermi di porre l’attenzione, attraverso questa lettera, sulla necessaria prevenzione, anche istituzionale, in favore di tutti coloro che dovessero venire a trovarsi nelle mie stesse condizioni”, ha spiegato la donna nel post prima pubblicato su un gruppo in cui si parla di problemi sanitari e poi inspiegabilmente rimosso dagli amministratori dopo che lo stesso post aveva ricevuto numerosissime condivisione. Ma la donna non si è persa d’animo e lo ha ripubblicato sul suo profilo facebook. Ecco il suo racconto:
“Gentile infermieri e medici del reparto di Terapia intensiva del Fatebenefratelli di Napoli, sì voi, gli stessi che mi avete riso in faccia, che mi avete parlato alle spalle, che mi avete apertamente offeso, come se io fossi una pazza bisbetica soltanto perché vi chiedevo un pò di pulizia, un pò di rispetto, un minimo di attenzione. Tutte cose dovute non a me Emilia Rosati, come persona, ma a me, come ammalato, a me, come a tutti gli ammalati. Come quelli che, come me, sono stati portati da voi dopo aver vinto la battaglia della vita sulla morte.
Battaglia che ognuno di noi, di voi, si troverà ad affrontare, e che, in quel momento, richiederà l’aiuto, l’ umana pietà, la professionalità, e non ultima l’educazione di altri essere umani, tanto più se hanno scelto ( e io spero che sia stata una vera libera scelta) di svolgere un mestiere così bello, onorevole , direi santo, come il vostro.
A te, di cui non conosco il nome, ma che mi hai lasciato dormire un giorno e una notte tra lenzuola sporche di sangue, puzzolenti, sulle quali ho dovuto spruzzare un flacone di deodorante per riuscire a respirare, e che quando ti ho chiesto perché lo avevi fatto mi hai risposto che “tanto si trattava di sangue mio”, a te chiedo: avresti fatto dormire tua madre in quelle condizioni?
A te, anzi a a voi quattro, perché eravate quattro , tutti di fronte a me, dopo che, a causa di una pala messa male (ma naturalmente la colpa era mia che mi ero spostata) mi si erano bagnate le lenzuola e avete accettato di lavarmi, dico accettato perché vi ho dovuto implorare, ma poco male, se non mi aveste esposto completamente agli occhi di tutta la sala antistante e perfino del corridoio dove si affaccia la porta del reparto (mentre con un piccolo gesto avreste potuto tirare la tenda che è messa lì apposta. ), a voi domando: se al posto mio ci fosse stata vostra madre l’avreste tirata quella tenda?
Gentile infermiere, quando ti ho pregato con gli occhi di non farmi l’ecografia con un batuffolo caduto per terra e poi celermente ripreso, quando ti ho chiesto di togliere dal mio tavolino la spugna che mi avevi dato per disinfettarmi, quando ho pregato per cose attinenti la pulizia, anzi no, prima ancora il decoro, mi hai risposto che questa è una terapia intensiva e che “qui abbiamo altre priorità”.
Mi congratulo con voi per l’opera importante che svolgete, ma mi domando se come in qualsiasi organizzazione anche qui non ci sia una divisione dei compiti, per cui, probabilmente, anche mentre trattate casi veramente gravi, ci sarà pure un addetto alle pulizie da chiamare, prima o poi. E se non ci fosse, forse basterebbe che il vostro collega non si accomodasse affianco al letto del mio vicino di stanza a chiacchierare.
Eh sì, lo so, non si può essere simpatici a tutti, e. a voi non lo sono stata per niente, forse perché sono abituata a dire sempre grazie quando ricevo qualcosa, ma quando non viene rispettato un diritto mio o di altri nelle mie stesse condizioni, ho la brutta abitudine di credere ancora che esista la giustizia e sento la necessità di invocarla. Da questo punto di vista sono rimasta un’adolescenziale utopista: si’ credo che esista la giustizia e che, al posto di chi non ha capacità né voglia, debbano entrare tanti giovani disoccupati. E solo per questo che adesso vi scrivo, non per un rimprovero fine a se stesso, e tantomeno per chiedere delle scuse che, visti gli antefatti, non arriverebbero mai.
La compattezza nel difendervi l’un l’altro è la cosa che mi ha sconvolto di più. Ho fatto anche appello all’ onestà intellettuale di ciascuno di voi, dottoressa compresa, ma la cosa più importante era difendervi, essere solidali nel non ammettere di avere sbagliato.
Chiunque fa sbaglia. A volte basta solo un poco di umiltà per ammetterlo. E quella non la dà la laurea o il diploma.
Non mi fermerò qui, perché nessuno, anche chi non avesse gli strumenti o l’attitudine per sapersi difendere, debba sentirsi umiliato come voi avete fatto sentire me.
Al prossimo malato, vi prego, pensate a vostra madre”.
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