Bologna. Uccise il suo coetaneo e vicino di casa per una questione di soldi, poi nascose il cadavere nel pozzo: sedicenne condannato a 14 anni e 8 mesi di reclusione. Giuseppe Balboni, 16 anni, fu ucciso il 17 settembre dello scorso anno a Tiola di Castello di Serravalle tra il bolognese e il modenese. Il giovane omicida aveva ucciso con la pistola del padre il coetaneo e aveva nascosto il cadavere in un pozzo, vicino alla sua casa. Stamane il minore è stato condannato a quattordici anni e otto mesi con rito in abbreviato dal Gup del Tribunale per i minorenni, Luigi Martello. Sentenza che amareggia i genitori di Giuseppe: “Per noi si tratta di una sentenza troppo lieve. Auspichiamo almeno che possa servire a evitare ulteriori tragedie come quella di Giuseppe”, dicono, in una dichiarazione affidata agli avvocati Domenico Morace e Francesca Lamazza. Il dispositivo di sentenza è stato letto dal gup dopo circa un’ora di camera di consiglio. Il pm Alessandra Serra aveva chiesto 18 anni, contestando l’aggravante dei futili motivi e della minore età della vittima. Il difensore dell’imputato, avvocato Pietro Gabriele, preferisce non fare commenti. I legali della famiglia Balboni attendono “con ansia le motivazioni del gup, per cercare di capire come si è arrivati a questa pena, a fronte delle accuse di omicidio aggravato, occultamento di cadavere e spaccio di stupefacenti”. Il corpo del sedicenne, residente con la famiglia a Zocca, nel Modenese, venne trovato una decina di giorni dopo la notizia della sua scomparsa. Era un lunedì e doveva andare a scuola, ma in classe non era mai arrivato. Alle 7 del mattino aveva un appuntamento a casa dell’altro ragazzo, per parlare del debito che c’era tra i due, con Balboni che pretendeva i soldi, circa 250 euro, e l’altro che si rifiutava. L’imputato, fermato il 24 settembre, confessò, dicendo inizialmente di essere stato minacciato e di essersi difeso, una tesi a cui però gli inquirenti non hanno creduto. Anzi, in un primo momento la Procura guidata da Silvia Marzocchi aveva contestato la premeditazione, sostenendo cioè che da parte dell’assassino ci fosse un piano per uccidere, ma l’aggravante è poi caduta. L’imputato era stato sottoposto a perizia psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere. Dall’analisi degli atti, aveva concluso l’esperto, ‘si ricava uno scarso contatto con sentimenti come pena e compassione, ma tutto questo senza configurare uno stato di immaturità sociale, ma mantenendo capacità e libera scelta’.
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