Affrontando un caso di malasanita’ avvenuto nella sala parto di una clinica di Salerno, la Cassazione ha deciso di ampliare la tutela dei bimbi che stanno per venire al mondo e ha stabilito che il feto, nel momento in cui transita nel canale uterino, nello sforzo di arrivare alla luce, deve essere considerato non piu’ un feto ma un “uomo”. Con la conseguenza che il personale sanitario che assiste le donne in travaglio, se commette errori fatali per negligenza, imperizia, o disattenzione, verra’ condannato per omicidio colposo e non per aborto colposo, reato meno grave. Afferma infatti la Suprema Corte che nel contesto attuale “di totale ampliamento della tutela dei diritti della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si e’ poi estesa fino all’embrione”, il feto, “benche’ ancora nell’utero”, deve essere considerato un “uomo” durante il travaglio della gestante, nel momento cioe’ della “transizione dalla vita uterina a quella extrauterina”. E dunque, ad avviso degli ‘ermellini’, l’ostetrica negligente che provoca la morte del feto per non aver correttamente monitorato il battito cardiaco risponde di omicidio colposo e non di aborto colposo. E non puo’ nemmeno invocare la responsabilita’ del ginecologo e quella del medico anestesista perche’ il monitoraggio del battito e’ un suo specifico compito. Sulla base di queste considerazioni che tengono conto dell’evoluzione “normativa e giurisprudenziale italiana e internazionale”, nel campo dei diritti della persona, la Cassazione – verdetto 27539 della Quarta sezione penale, presidente Patrizia Piccialli – ha confermato la condanna per omicidio colposo a un anno e nove mesi di reclusione, pena sospesa, nei confronti di una ostetrica. La donna, Filomena G. di 44 anni, non aveva adeguatamente monitorato il battito cardiaco di un feto mentre la madre era in travaglio e le era stata somministrata l’ossitocina per aumentare le contrazioni. L’ostetrica – che pretendeva una condanna piu’ mite, per aborto colposo – continuava a rassicurare il ginecologo di turno a ‘Villa del Sole’ che tutto procedeva regolarmente. Invece il bimbo fu estratto dall’utero gia’ morto, per asfissia, e i periti stabilirono che la congestione degli organi e lo stato di sofferenza fetale “non si era determinata in pochi minuti” ma in almeno mezz’ora. Se il monitoraggio fosse stato adeguato il bambino, che era perfettamente sano, poteva essere salvato ricorrendo al cesareo. Per la Cassazione, “la tutela della vita non puo’ soffrire lacune” e deve essere ‘protetto’ dalla legge anche il ‘viaggio’ dei nascituri nel canale uterino. In base a quanto accertato nel processo, c’era stata “una scorretta e superficiale esecuzione dei tracciati”. “Assolutamente censurabile”, inoltre, il comportamento dell’ostetrica che “successivamente alla nascita del feto morto, aveva allegato alla cartella clinica” il tracciato di un’altra gestante e aveva addirittura riferito alla sfortunata mamma del piccolo nato morto – l’otto novembre 2008 – che “il bambino era nato vivo e che lei stessa ne aveva verificato il battito cardiaco al momento della nascita”. Per questo a Filomena G. sono state negate le circostanze attenuanti generiche. Il verdetto dei supremi giudici conferma la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Salerno il 6 marzo 2018, conforme a quella pronunciata dal Tribunale di Salerno il 16 luglio 2015.
Articolo pubblicato il giorno 20 Giugno 2019 - 19:26