<strong>Don Giuseppe Diana al tempo di Francesco.
Il suo martirio, dopo 25 anni, evidenzia anche oggi il volto di una Chiesa in uscita, che si china sul dolore umano.
Rosario Giuè
Noi ci troviamo a fare memoria della testimonianza di don Giuseppe Diana ucciso dalla camorra a Casal di Principe 25 anni fa, non in un vuoto storico ma all’interno di un momento particolare della vita della Chiesa. Siamo nel tempo di papa Francesco. Come sarebbe piaciuto a don Giuseppe Diana trovarsi qui oggi! Diana ha atteso tanto un Papa impegnato per una riforma della Chiesa povera e dalla parte dei poveri e delle escluse. Una Chiesa che sposa la causa dei derelitti della storia: i derelitti e le scartate che sono frutto dell’“indifferenza globale” e dell’“iniquità planetaria”. Come si sentirebbe ben confermato nella fede don Diana nel sentire affermare da Francesco che “si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto”. Come si sentirebbe contento don Peppe nel vedere Francesco firmare con il Grande Imam di al-Azhar, un documento in cui si afferma che “il pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”. Come sarebbe felice Il parroco di Casal di Principe nel vedere che sulla cattedra di Pietro siede un cristiano, che si definisce “peccatore” e che vuole riformare la Chiesa a partire non dalle condanne e dalle censure, bensì mettendo al centro il Vangelo della misericordia! Diana si rammaricherebbe molto, però, nel vedere che non passa settimana senza che papa Francesco non venga attaccato, ora pubblicamente ora velatamente, da monsignori, cardinali, siti reazionari, da atei devoti e da parte del mondo politico. Don Peppe alzerebbe la sua voce a difenderlo!
SOLITUDINE
Don Diana, avendo sotto gli occhi che Francesco dà scandalo a quella parte di Chiesa tradizionalista e perbenista che non lo sta supportando ma solo sopportando, si sentirebbe meno solo nel suo essere stato un uomo e un prete decisamente scandaloso agli occhi di un mondo farisaico, che ama i catechismi e le sacrestie più della carne ferita delle persone. Gli tornerebbero bene a mente le parole di Gesù: “Guai, diceva Gesù, quando tutti gli uomini dicono bene di voi; allo stesso modo, infatti, i loro padri trattavano i falsi profeti” (Luca 6,26). Don Diana lo sapeva: quel mondo reazionario non vuole morire. Quel mondo non ama una Chiesa come “ospedale da campo”, una “Chiesa in uscita”, che si china sul dolore umano. A questa parte di Chiesa interessa la logica del tempio. Tutto il resto è scandalo e disturbo. E don Peppe era distante da questo mondo asfittico e incapace di parlare al cuore umano. Non ne era distante solo a parole, ma con la creatività e la serena libertà della sua giovane vita. Volevano bloccarlo. Ma non ci riuscirono. Volevano dargli “buoni consigli” come a Gesù nel tempio di Gerusalemme. Ma fallirono.
IL MARTIRIO
Don Peppe Diana, come uomo profetico, aveva messo al centro del suo esistere e del suo ministero presbiteriale la via liberante del Vangelo per amore del suo popolo. E sapeva che si possono innescare processi di liberazione se si è già liberi in prima persona. Criticava, per esempio, certe leggi medievali della Chiesa cattolica che sono “solo precetti di uomini”, buoni per autoconservare il proprio apparato. Ma per certi ambienti clericali quei precetti umani valgono più di un dogma di fede. Valgono più delle persone. E così don Peppe era di scandalo. La libertà dà fastidio e fa pagare un prezzo elevato. Si muore perché si è soli, perché si è lasciati soli. E a don Peppe la sua “unicità” sovversiva, in memoria di Gesù, gliela hanno fatta pagare. Il potere mafioso, uccidendolo e provando a infangarlo dopo la morte. Le curie, con lodevoli eccezioni (per esempio, mons. Raffaele Nogaro), non avendo sempre il coraggio di sostenerlo fino in fondo. Gli uomini degli apparati non hanno mai amato le persone profetiche: per loro quelle sono soltanto vite “scandalose”. Il martirio di don Diana non è stato, perciò, vissuto come un dono, come un’irruzione della grazia di Dio nella nostra storia italiana. No, è stato vissuto come un fastidio, come un inconveniente. Uno scandalo nello scandalo. E ci si è trovati impreparati. Ecco, ne sono convinto, sostanzialmente a causa di tutto questo il processo canonico del riconoscimento del martirio “in odio alla fede” di don Diana non è stato avviato.
ATTENDENDO FRANCESCO
Come sarebbe stato felice don Diana di poter vedere un Papa che, nel XXV anniversario del martirio mafioso di don Giuseppe Puglisi, si è recato in visita pastorale a Palermo, sostando nel luogo dell’omicidio e visitando la parrocchia di S. Gaetano. Quella visita non è stata un gesto isolato. Quella visita va situata all’interno di un pellegrinaggio, che papa Francesco sta compiendo alla ricerca della memoria di alcuni profeti che hanno segnato la vita della Chiesa italiana. Il Papa venuto dalla periferia, “quasi dalla fine del mondo”, è già stato a Barbiana, sulla tomba di don Lorenzo Milani; a Bozzolo sulla tomba di don Primo Mazzolari; ad Alessano sulla tomba del vescovo pugliese Tonino Bello; a Nomadelfia, l’istituzione fondata da don Zeno Saltini. In questo itinerario papa Francesco si è messo in cammino come a chiedere perdono a questi uomini profetici, troppe volte dimenticati, che hanno sognato una Chiesa povera e più libera, senza trionfalismi, più umana e, dunque, più cristiana. Una Chiesa che si fa convertire dalla situazione.
La domanda ora è: all’interno di questo pellegrinaggio della memoria e della penitenza, papa Francesco andrà a pregare sulla tomba di Giuseppe Diana? È l’auspicio, inespresso, di tanti uomini e tante donne. Mario Jorge Bergoglio, il 21 marzo del 2014, nella parrocchia di San Gregorio VII a Roma, ha già indossato la stola sacerdotale di don Peppino Diana. Un gesto altamente simbolico. Ma ora non sarebbe bello che si facesse un nuovo passo? Tutti in Italia conoscono padre Puglisi, pochi conoscono don Diana. È normale? È giusto? Cosa si dovrà attendere per valorizzare, con un gesto ufficiale, il martirio di questo giovane prete ucciso a soli 36 anni? “I tempi non sono maturi”, dice qualcuno (il Vescovo di Aversa, NdR). Ma come si decide se i tempi sono maturi? In base a quali criteri, a quali logiche, sotto la spinta di cosa? Dobbiamo forse attendere altri quarant’anni, come fu per mons. Oscar Romero?
Logiche politiche e clericali non volevano riconoscere il martirio in odio alla fede dell’arcivescovo di San Salvador. Solo con il Papa sudamericano i tempi divennero “maturi”. Ma quanto tempo si è perso! Quanto tempo si è perso nella Chiesa italiana prima di chiedere perdono a don Milani! C’è voluto papa Francesco per riabilitarlo. Quanto si deve attendere prima che siano spazzate via le paure, le incertezze, gli opportunismi nel caso di don Peppe Diana, dentro e fuori la Chiesa? Solo Francesco, ancora una volta, potrà togliere quest’incertezza! Non chiedo di dichiarare beato don Peppe. Le logiche delle beatificazioni non mi entusiasmano. Servono solo per incensare i vivi. I discepoli e gli estimatori di don Milani non hanno chiesto la beatificazione del parroco di Barbiana. Don Lorenzo, lo crediamo nella fede, sta già alla destra del Padre, in compagnia di Gesù risorto e con i suoi “figli”, i poveri.
Ma come sarebbe bello se papa Francesco, dopo essere stato a Palermo e a Barbiana, andasse al più presto a Casal di Principe a pregare sulla tomba di don Peppino. E magari a visitare la sua anziana e malata mamma Iolanda! Diceva il teologo salvadoregno e gesuita Jon Sobrino, che certo papa Bergoglio ha avuto modo di incontrare: “Voi martiri continuate ad essere vivi perché siete stati compassionevoli fino alla fine”. Compassionevoli anche verso la Chiesa che li dimentica. Fino a quando?
Articolo pubblicato il giorno 6 Aprile 2019 - 15:41