Addio all’America “piu’ buona e gentile”, quella dei “mille punti di luce” che si aiutano l’un l’altro a fare piu’ grande il Paese. George H. W. Bush, il 41esimo presidente americano, se n’e’ andato sette mesi dopo l’inseparabile moglie Barbara e due anni dopo l’ultima delusione: avere visto il figlio Jeb umiliato dal rivale Donald Trump in una corsa alla Casa Bianca che ha radicalmente cambiato il modo di essere repubblicani incarnato dalla sua famiglia. Bush, presidente di un solo mandato, e’ morto a 94 anni, ha annunciato in una nota il figlio e 43esimo presidente George W. Bush, forte di un giudizio benevolo della storia ben superiore a quando, nel 1992 contro Bill Clinton, aveva perso a valanga. “Un patriota e un umile servitore dell’America”, ha commentato uno dei suoi successori, Barack Obama, il primo a rendere omaggio a una figura di transizione nella politica americana. Alla Casa Bianca, Bush padre, aveva fatto soprattutto politica estera: da ‘Giusta Causa’ a Panama a ‘Riporta Speranza’ in Somalia, passando per la prima invasione dell’Iraq sullo sfondo del crollo del Muro di Berlino arrivando a raccogliere oltre il 90% dei consensi in anni di cambiamenti epocali che al politologo Francis Fukuyama avevano fatto parlare di ‘fine della storia’. A far fuori il “SuperBush” vincitore a meta’ su Saddam Hussein, era stata l’economia e la promessa elettorale mancata: “Read my lips: no new taxes”. “Poppy”, come lo chiamavano in famiglia, aveva faticato a mettersi in sintonia con gli affanni della gente, un limite imposto dal Dna a uno degli ultimi discendenti di quell’aristocrazia ‘wasp’ della East Coast che si credeva di poter governare per diritto di nascita. Figlio di un ricco banchiere di Wall Street e senatore del Connecticut, George Herbert Walker Bush da piccolo andava a scuola con limousine e autista in livrea. Pur allevato nella bambagia, “Poppy” mostro’ stoffa da patriota quando nel 1941, dopo Pearl Harbour, si arruolo’ come pilota della Navy e fu abbattuto dai giapponesi. Dopo la smobilitazione, sposo’ Barbara che aveva conosciuta un party di Natale a Greenwich e parti’ per il Texas a fare i soldi con il petrolio. Cinque figli, George W, Jeb, Neil, Doro e poi Robin, morta bambina di leucemia. La “dinasty”, versione GOP dei Kennedy democratici, era in stile Ralph Lauren, si scrisse allora: Kenneburport nel Maine invece di Hyannis Port. Deputato dal 1966 al 1970, Bush non ce la fece mai a diventare senatore. Apprezzandolo “non per il cervello ma per la fedelta'”, il machiavellico Richard Nixon lo nomino’ nel 1971 ambasciatore all’Onu. Due anni dopo, in pieno Watergate, gli offri’ la scomoda direzione del partito repubblicano. “Poppy” sopravvisse allo scandalo e nell’ ottobre 1974 – con Gerald Ford – si riciclo’ come primo ambasciatore in Cina, carica che lascio’ l’anno dopo per diventare capo della Cia. Nel 1980 – senza base di potere nel partito ma da tutti considerato “molto amabile” fece il colpo’ della vita: Ronald Reagan, a cui aveva cercato di tagliare la strada’, lo coopto’ a vice. Otto anni dopo, contro Michael Dukakis nel 1988 fu una gara senza storia anche per via dei colpi bassi escogitati dal suo stratega Lee Atwater. Nel 1992, dopo la peggior sconfitta elettorale in 80 anni (ottenne solo il 37% dei voti), fu contento di lasciare Washington. Quel giorno ’41’ chiuse per sempre con la politica attiva. “Nonno a tempo pieno”, disse, per tornare alla ribalta solo due volte, in coppia con Clinton, cooptato a Kennebunkport come “pecora nera della famiglia Bush”: nel 2004 per le vittime dello tsunami in Asia, l’anno dopo per gli sfollati di Katrina.
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