Scampia, periferia nord, per anni la piazza di spaccio più remunerativa d’Europa. Il mercato all’aperto, dove ancor oggi, è possibile trovare ogni tipo di sostanza. Anche qui, dove una volta tutto si muoveva nel nome e per conto del boss Paolo Di Lauro, le nuove leve hanno provato a scalzare i vecchi padrini, imponendo le regole e la legge della malavita in erba. In alcuni casi ci sono riuscite.
A Scampia si reca anche il giornalista David Beriain per intervistare un giovane boss emergente e inserire la sua «testimonianza» nel reportage «Baby Camorra» del format «Clandestino».
L’appuntamento è fissato di notte, la macchina di Beriain entra in uno slargo, dove ad attendere c’è un’altra vettura, una Audi grigia. Il conducente segnala con l’intermittenza dei fari la sua presenza, è il codice convenuto per far avvicinare il giornalista, che affianca l’altra auto e poi smonta dall’abitacolo.
L’affiliato che ha il compito di portare Beriain nella «tana» del capo, lo perquisisce per verificare che addosso non abbia armi; poi utilizza un apparecchio, una sorta di intercettatore di frequenze, per accertarsi che non ci siano microfoni, né microtelecamere nascoste.
Infine fa salire in auto il suo passeggero
ed insieme partono alla volta del covo.
Diversi chilometri dopo, si arriva nell’appartamento: il baby-boss indossa una t-shirt bianca con la stampa di un cobra rosso. Sopra la maglietta un k-way scuro, il volto è coperto da un passamontagna (come quello del subcomandante Marcos) che ne fa intravedere solo gli occhi chiari dalle pupille estremamente dilatate e ne «ovatta» la voce.
Avrà poco più di vent’anni. «Sono il più forte», esordisce. Ripete: «Sono il più forte». «A Napoli – continua – comando io perché ho già aperto il fuoco. Già ho azzeccato a terra (steso al suolo) chi dovevo uccidere. Noi siamo giovani e abbiamo la guerra in testa», afferma il baby-boss.
Riceve Beriain in una salone tinteggiato di ocra,
appesantito dal barocco kitsch delle cornici
dei quadri e del resto dell’arredamento.
Sullo sfondo, all’inizio di una scala, l’immagine di un Cristo avvolto dalla luce. Il giornalista gli chiede se sia un baby-boss e lui risponde prontamente: sì, sono il numero uno. Ma quante persone si devono uccidere per diventare un boss? Chiede ancora Beriain. «Tutte quelle che si devono uccidere. Con precisione non lo so, ma se il gruppo è formato da 20 affiliati, tu devi farli fuori tutti», afferma il camorrista.
Parla a scatti, è sensibilmente agitato. Ha caldo, toglie il giubbino e chiede a uno dei suoi di tenergli la pistola.
Prima di continuare a raccontare, pretende che i tatuaggi
che gli invadono soprattutto la pelle del braccio destro,
non vengano ripresi. La camera inquadra l’immancabile Rolex.
Il giovane boss è di nuovo pronto a parlare: «Io mi sono ribellato – afferma – e sono stato io a fare partire tutto. Perché non mi piaceva più di stare sotto padrone, dovevo ammazzare, dovevo guadagnare io, la droga doveva essere mia. E basta. Poi chi è più forte di me, mi ammazza e prende lui il mio posto».
Quando è arrivato, per il giovane boss, il momento di ribellarsi e di mettersi a capo di un clan? Chiede Beriain. «Ho capito che stavo tradendo (il riferimento è ai suoi ex sodali) e ho fatto una cosa che non si fa, però mi piacciono i soldi. Mi piace il potere». Quali sono i traffici che svolge insieme al suo gruppo? Domanda ancora il giornalista. «Attualmente sono impegnato con la droga, ma mi occupo di tutto: anche di contraffazioni, di estorsioni. La prima cosa è lo spaccio di droga, però, perché si fanno i soldi. Trattiamo soprattutto cocaina, ma anche eroina, crack, hashish. Però la cocaina è quella che viene più consumata, a Napoli ne fanno uso anche i ragazzini di 12 anni».
Ma perché fa quella vita? Cosa gli piace
maggiormente comprare col denaro del suo business?
«Le macchine – risponde il boss -, Porsche soprattutto. Ma mi piace anche portare tanti soldi addosso. Quando vado in un locale, sono capace di spendere 10-15mila euro, e poi mi piace vestire bene, e fare le cose che solo i soldi ti permettono di fare». Quanti anni crede di poter riuscire a vivere uno che conduce una esistenza come quella del baby-boss? chiede infine Beriain. «E’ come se avessi una malattia incurabile, un tumore, mi convinco di essere malato anche se sono in buona salute. Perché già so che un giorno posso morire, se sarò forte, resterò in piedi, altrimenti dovrò morire», risponde il camorrista.
Gustavo Gentile
Articolo pubblicato il giorno 23 Novembre 2018 - 13:04