Arte e Musei

Pompei Scavi, una scoperta tira l’altra, come le ciliegie. Forse si rischia l’indigestione?

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Non si è spenta ancora l’eco dell’annuncio della scoperta della inscrizione con carboncino del cosiddetto buontempone – la quale dovrebbe riscrivere la data esatta della eruzione del 79 d.C. – ed ecco piombare sui media di ogni specie la notizia della “scoperta” di cinque scheletri nella stessa casa della iscrizione. Poi, ieri l’altro un altro annuncio ci ha informati che gli scheletri sono sei. Ne hanno trovato un altro poco distante, che ha fatto riversare altri fiumi di inchiostro digitale con annunci riguardanti la dinamica della fine di quei poveretti duemila anni fa. In verità però, l’eco della iscrizione a carboncino non si è ancora spenta anche perché si sono appena accese le polemiche sulla piena affidabilità del primo annuncio dato da Massimo Osanna. Il Direttore del Parco Archeologico di Pompei ha fornito infatti una traduzione del testo della iscrizione, la quale è stata contestata poi da altri studiosi sia in Italia che all’Estero.
C’è chi ha detto addirittura che non è proprio sicuro che una iscrizione a carboncino non potesse conservare la propria leggibilità anche per un anno. E che quindi essa potrebbe essere stata vergata anche nel 78 d.C. e non nel 79, come per primo ci ha tramandato Plinio il Giovane raccontando la morte di suo zio Plinio il vecchio. Ma c’è che fa notare che la stessa data esatta della “scoperta” della lettera di Plinio il Giovane non è ancora pienamente condivisa dagli studiosi. E le polemiche – almeno tra storici e archeologi – si rinfocolano. Insomma si è capito che le scoperte sono come le ciliegie. Buone quanto volete, ma se una tira l’altra, si corre il rischio di fare indigestione. Bisogna però riconoscere che la Casa di cui fa parte la stanza della iscrizione a carboncino dimostra di essere una casa prodiga di sorprese per gli “scopritori”. Solo che – come fanno notare altri studiosi – davvero di scoperte in realtà non si tratta, se corrisponde al vero il “ri-trovamento” nella stessa casa di una moneta di Filippo d’Asburgo risalente agli anni trenta del Seicento.
Il comunicato del parco Archeologico però non dice altro sulla data. Ohibò!…. ma stiamo parlando di anni intorno al 1630. Cioè di oltre un millennio e mezzo dopo la eruzione del 79 d.C.!! Quindi stiamo – anzi stanno parlando – di Filippo IV d’Asburgo, nato nel 1605 e divenuto Re di Spagna all’età di dieci anni, quando si maritò con Elisabetta di Francia, più o meno coetanea. Il matrimonio tra i due giovanissimi rampolli reali fu un affare di stato, non di cuore. Quest’ultimo Filippo comunque è morto nel 1665. Egli, quindi, negli anni trenta del Seicento era stabilmente sul trono di Spagna e batteva moneta. Ci sembra utile ricordare al lettore però che la notizia è importante anche rispetto alle scoperte degli scavi oggi in corso a Pompei, annunciate con enfasi non sempre proporzionata al valore intrinseco di esse. La notizia conferma quello che andiamo dicendo inascoltati, anzi scrivendo da ormai qualche anno, circa il fatto che la memoria di Pompei è sopravvissuta all’eruzione per secoli, come le sue rovine non completamente sepolte dal Vesuvio. La scoperta di una moneta in uno scavo clandestino del Seicento è poi una notizia importante in sé. E’ depredazione certificata. Si sa che gli scavi di depredazione – cominciati con i “fossores” romani – continuarono nei secoli, rallentandosi soltanto dopo il 1631, dopo la catastrofica eruzione vesuviana di quell’anno che fece piovere sulla campagna pompeiana fino a due metri di coltri vulcaniche. Da quel momento la memoria storica di Pompei e le sue mute rovine sopravvissute all’eruzione del 79 d.C. furono soffocate da cenere e lapilli e sepolte definitivamente.
Ma, dopo qualche decennio, la memoria riattecchì e con essa ripresero scavi e spoliazioni clandestine, fin quando nel 1748 per volere di Don Carlos di Borbone si cominciarono scavi “ufficiali” ed estesi sulla collina della Civita Giuliana, alla ricerca di… Stabia (!) che poi si dimostrò essere Pompei. A conferma delle nostre argomentazioni ricordiamo che l’erudito archeologo gesuita Raffaele Garrucci, in premessa alla propria opera “Questioni Pompeiane”, a metà dell’Ottocento, afferma con grande onestà intellettuale: “Quanta parte di Pompei ed in che tempo si sterrò prima del 1748 non può dirsi con sicurezza.” Lo stesso Garrucci precisa di avere letto una scritta moderna che riportava la data “1673”, su un pilastro della Basilica pompeiana, apposta da uno scavatore clandestino. erede però dei “fossores”, gli scavatori-predatori d’epoca romana. Ma “l’annuncio” più importantedel Garrucci però è questo: “Il sapersi che il canale di Sarno passa poco discosto da questo sito non prova uno scavo sopra terra, essendo ivi rimesso in uso un’antico acquidotto e non fabbricato un nuovo.” In pratica, senza enfasi, l’accademico Gesuita afferma che il Canale Conte di Sarno è stato fatto re-utilizzando un antico acquedotto e non scavando, come la sterminata Storiografia degli Scavi pompeiani ci ha da sempre tramandato – e lo fa tutt’ora – proponendo Domenico Fontana come primo, vero, se pur inconsapevole scopritore di Pompei, alla fine del 1500. Una eresia autentica per la Storiografia ufficiale. Si tratta di un “aggiustamento” di data di un paio di millenni mezzo, a buon peso. Come si vede, altro che indigestione di annunci e scoperte ci sarebbe da fare ancora su Pompei… Evitando quella da ciliegie.

 Federico L. I. Federico


Articolo pubblicato il giorno 26 Ottobre 2018 - 15:14
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