“Dedico il mio tempo a contrastare la fascinazione, il culto del mito, nessuno deve imitare quella vita, non è meritevole di imitazione”, “guardava con interesse a Totò Riina perché condivideva con lui l’idea di sovvertire lo Stato. Follia”. Così, in una intervista a Il fatto, Juan Pablo Escobar, figlio di Pablo, ucciso 24 anni fa in Colombia. E prende le distanze dallo zio Roberto, fratello di Pablo, cui a Medellin è stato sequestrato un museo dedicato alla memoria del celebre narcotrafficante: “Con il fratello di mio padre, che è stato anni fa narcotrafficante, non parlo da 25 anni. Io ho cambiato nome a diciassette anni, mi chiamo Sebastian Marroquin – spiega -, perché non era possibile scappare dalla violenza, da quello che ha lasciato mio padre. Ho scritto un libro, uno spettacolo teatrale e giro il mondo per raccontare e sfatare il mito. Parlo con i giovani e dico loro che quella di mio padre non è una vita degna di essere imitata. Per me è una missione pubblica, la storia non si deve ripetere. I giovani devono capire: se fanno le cose che ha fatto mio padre vanno verso la distruzione della loro libertà e del loro futuro. Se hai metà dell’intelligenza che serve per diventare narcotrafficante devi sfruttarla in altro modo, puoi avere una vita stupenda senza mai vendere un grammo di droga”. Inoltre afferma: “Mio padre, senza proibizionismo, avrebbe fatto un altro lavoro. La brutta notizia per chi non vuole la legalizzazione è che il mercato è già legalizzato, la droga ormai te la portano a casa, solo che lo fa la criminalità”. E conclude: “Mio padre era molto amato dalla sua gente, mi ha dimostrato quanto può arrivare lontano un uomo in termini di amore e violenza. Io continuo a parlare della storia di mio padre, per me è un modo per chiedere perdono per quello che ha fatto”.
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