Non viola la Costituzione la norma che vieta al Ministero dell’Interno di concedere il vitalizio ai familiari delle vittime della criminalita’ organizzata, qualora questi abbiano parenti o affini entro il quarto grado nei cui confronti e’ in corso un procedimento di prevenzione o penale per motivi di mafia. Lo afferma il giudice monocratico di Napoli Barbara Gargia, nell’ordinanza, contro cui verra’ proposto appello, con cui qualche giorno fa ha rigettato la richiesta di sollevare la questione di legittimita’ della norma (contenuta nell’articolo 2, comma 21, della Legge 94 del 2009) davanti alla Corte Costituzionale. A rivolgersi al giudice era stato lo scorso aprile l’avvocato Giovanni Zara, che difende i familiari di Paolo Coviello, ucciso insieme a Pasquale Pagano nel 1992 dai killer del clan dei Casalesi per un errore di persona; i due, e’ emerso dal processo in cui sono stati condannati definitivamente i sicari, furono scambiati per i bersagli prescelti, ovvero i camorristi Alfredo Zara e Domenico Frascogna. Il processo penale ha evidenziato come Coviello e Pagano fossero vittime assolutamente innocenti, non avevano cioe’ nulla a che fare con il clan, ma per il giudice partenopeo ha fatto bene il Ministero dell’Interno a rifiutare la concessione dell’elargizione richiesta dai figli di Coviello, Giuseppe ed Eufrasia, essendosi il Viminale “attenuto alle disposizioni normative in materia”. I Coviello infatti hanno parenti entro il quarto grado vicini al clan. La norma contestata non ha permesso ai familiari di molte vittime innocenti di avere il beneficio economico; tra i casi piu’ noti quello concernente Marisa Garofalo, sorella di Lea Garofalo, vittima della ‘ndrangheta – fu uccisa e il corpo bruciato – dopo aver testimoniato contro il marito e il cognato affiliati. L’avvocato Zara aveva indicato tra le norme della Costituzione violate gli articoli 3 (principio di eguaglianza), 27 (principio della responsabilita’ penale personale) e 97 (principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione); punto centrale del ricorso era il principio secondo cui in certe piccole comunita’ del Sud, dove la criminalita’ organizzata e’ molto radicata, come Casal di Principe, Corleone, o molti comuni calabresi, le parentele non si possono scegliere ma non possono neanche rappresentare un ostacolo giuridico che impedisce a persone che mai hanno fatto parte del clan di ricevere il beneficio di legge, qualora restino vittima essi stessi o i loro familiari di eventi di sangue. Si creano cosi’ vittime di serie A e di serie B. Il giudice non e’ entrato nel merito di questa riflessione, ma ha semplicemente riconosciuto la legittimita’ della decisione del Viminale, basata sulla ratio della norma che vuole evitare che i soldi tornino ad ambienti vicini alla criminalita’; il magistrato ha peraltro riconosciuto che “e’ molto difficile, in concreto, raggiungere la prova positiva della predetta estraneita’ ad ambienti delinquenziali da parte delle vittime” proprio a causa della struttura “parafamiliare” che assumono le cosche in tali comunita’. Il giudice non ha ravvisato neanche profili di irragionevolezza nella scelta statale, trattandosi l’elargizione di un diritto soggettivo, con lo Stato libero di indicare requisiti per accedervi.
Articolo pubblicato il giorno 11 Giugno 2018 - 16:54
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