“Vorrei parlarne in privato con i pm ed essere tutelato. Non mi sento al sicuro, ed è anche per questo che un anno fa mi allontanai dall’Italia”, è il colpo di scena al processo che vede accusato Luca Materazzo per l’omicidio del fratello Vittorio avvenuto nel quartiere di Chiaia i 28 novembre di due ani fa. Luca, trentasei anni, aspirante notaio, si mostra quindi collaborativo. Chiede la parola dopo la lunga testimonianza del capo della sezione Omicidi della squadra mobile Mario Grassia, che in aula ha ripercorso tutte le fasi delle indagini, a partire dalla sera del delitto. Ottiene la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee, come riporta Il Mattino, e parla per venti minuti: “È fondamentale che ci sia un ritorno alla collaborazione che è venuto meno quando ho deciso di andarmene – dice Luca – Vorrei confrontarmi direttamente con i pubblici ministeri perché ritengo di poter dare un enorme contributo alla ricostruzione dei fatti per inquadrarli correttamente. Ancora oggi mancano molti tasselli – continua – Ci sono cose che ho omesso di riferire per tutelarmi e ci sono cose che a loro (il riferimento è agli inquirenti, ndr) non risultano, cioè movimenti che ho fatto andando avanti e indietro per via Crispi, persone che incontrato. E sono cose importantissime”.
“Vorrei parlarne prima con i pm, poi saranno loro a decidere cosa portare nel processo senza pregiudicare la mia tutela”. L’imputato ripete la richiesta fatta già nella scorsa udienza, ribadendo di conoscere una verità che finora non sarebbe emersa dagli atti, quella che vorrebbe raccontare in prima battuta soltanto ai pubblici ministeri, quella che sostiene di non poter rivelare in aula, nel processo pubblico che sarebbe la sede naturale vista la fase in cui si trova attualmente la vicenda giudiziaria che lo riguarda, per il timore di non ben precisati rischi. Rischi a cui lega anche i motivi della sua latitanza di un anno all’estero, fino all’arresto a Siviglia, in Spagna, avvenuto a gennaio scorso. “Devo anche spiegare il perché mi sia allontanato”, sembra concludere Luca Materazzo ma poi aggiunge: “È importante che dia il mio contributo. Si tratta della mia vita. Sono cinque mesi che sono recluso. Ho tante cose da dire, maturate anche col senno del poi e con la lettura del fascicolo in cui ci sono tante inesattezze”. I pm Luisanna Figliolia e Francesca De Renzis, che hanno coordinato le indagini con il procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso e ora nel processo rappresentano la pubblica accusa, dovranno valutare la richiesta dell’imputato. Materazzo appare determinato nella sua difesa. “Tutta la modalità è incompatibile con i miei perché, con l’idea che possa avere aggredito mio fratello senza averne motivo in quanto il movente ad oggi non è ancora chiaro a nessuno – dice Luca in aula – Con mio fratello ho avuto tanti contrasti, ma normali litigi. L’unica vicenda risale a quando ero ragazzino, nel 2003, ma fu solo una spinta, nello studio di mio padre. Mio fratello – continua Luca, senza mai pronunciare il nome del fratello morto assassinato – era solito con gli atteggiamenti di denuncia. Anche nel 2016 si distinse per una denuncia che non esisteva, perché io non avevo fatto nulla tanto che addirittura fui invitato a pranzo dalla moglie, quindi non ci fu alcuna aggressione né fisica né verbale”.
Luca passa poi a singoli dettagli delle ore e dei giorni successivi al delitto, per fare precisazioni e provare così ad allontanare da sé l’immagine di un fratello litigioso e aggressivo, quando Vittorio era ancora in vita, e di un presunto assassino lucido e calcolatore, quando il corpo di Vittorio fu trovato ormai nel sangue davanti al portone di casa, ucciso da quaranta coltellate.
Luca prova a chiarire alcuni dei particolari messi in evidenza dagli inquirenti nel corso delle indagini: “Le ferite alla mani me le procurai con un pentolino per le uova sode e con i pesi durante un allenamento, con la polizia non fui aggressivo e maleducato, mi infastidì solo quando mi fu chiesto di spogliarmi”.
Quanto alla denuncia che sporse la mattina successiva per segnalare la sparizione di alcuni oggetti che la polizia aveva trovato in strada, tra indumenti e guanti sporchi di sangue abbandonati lungo la via di fuga del killer, Luca dichiara: “Dialogai serenamente, diedi impronte e feci fare tutti i rilevamenti del caso. A casa mia in tanti potevano entrare anche senza il mio permesso e senza avvisarmi perché per motivi familiari o lavorativi avevano le chiavi, e se non c’erano segni di effrazione sul portone era perché si apriva anche con il vento”. E infine ha una propria verità anche sulla sua fuga dalla città: “Feci subito la valigia per andare a casa di un amico perché non mi sentivo al sicuro – dice in aula – E successivamente, dal pc di un’amica, scelsi la destinazione dove allontanarmi perché continuavo a non sentirmi tutelato. E questa non può essere la prova della premeditazione e della mia implicazione nell’omicidio, perché l’ho fatto due settimane dopo i fatti e non prima”. Mercoledì si torna in aula. Nel processo sono parte civile la vedova dell’ingegnere Vittorio e tre delle quattro sorelle della vittima e dell’imputato.
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