<img class="alignnone size-medium" src="https://lh3.googleusercontent.com/DWW50RkIEwSnTE3Qxx5pHuDE9TYiOmw0pPMBZi24Uhn-kgIP331SyChilAayVwiwJDk9Ly-vJiJXNxsD4wYKjvjRo16iuTAVZLTnWlC2Z1XxDlzlff62Jiusj2lqgwZ69oqO7mJR5dyDD1CbIrIOGjZVcFVeLPjj6LjB28qFo73l_DkOFMkPXdF8keV9r-QjaX64TSLsseGGyfKFshxV_AD7rI1cAemSLyCLgxLQtLYCGBm4qvaJYDUZ7uX2s2hSHXc94sJgJfEmQiMBWoFTSNELeB_rgnOH8oXB02gRlt1nCcRuQI_zFx9aXhiFpYTii4MsQ1dNFLy41tS1h5SJXUFSeSD3Dr6jc5-jgItdHUD0gkraOi57OOvBkEnooYeyL9I_d7buOMZ3LLHgZ6QMDWmVi_ZAgv6cf_ZDzoQwqhRfodbwZLUBP3zGZo3vyJI2DCme8RnOUa5o6pxDv9GrtUK45n8u7KFr6mmZi7d2z9h0IaCgy4DpaJepmxP-utrIki-8hLZlJY6z0X1pDcqKWUBhsWY3id3ZlUeXXL-6_Dsx2E8mnrUYuQlNTW-f4BClCij65T1gHvJwLyiNWKjEMbspwD12WnYlLfKyIlLDBDkw-SgJ-VxYyY_ELuXuE0DCOk2AlwiS65ZfYWQf9X6rV99KYYUCtNeW=w868-h613-no" width="867" height="613" style="display:none"/>
Da giovedì 5 a domenica 8 aprile, al Nuovo Teatro Sancarluccio di Napoli, andrà in scena “Scarrafunera”, lo spettacolo di Cristian Izzo, interpretato da Roberto Azzurro che ne cura anche la regia.
Siamo tutti ancora un po’ animali. Siamo tutti un po’ esseri umani. Da questa riflessione parto, dopo aver interpretato alcuni esseri umani che sembrano stare al di sopra di altri esseri umani, alcuni esseri umani speciali insomma speciali – Pier Paolo Pasolini, Oscar Wilde, Boni de Castellane – e dunque stavolta divento lo “scarrafone”. E finalmente, senza ricorrere al favoloso Gregor Samsa di Kafka, eccone un altro, senza nome, ma fatto di versi. E, nell’intento di diventare altro sulla scena – un “altro” apparentemente così lontano da noi – quando ho “incontrato” Scarrafunera di Cristian Izzo, mi sono reso conto che poi così tanto lontano non ero. Infatti lui stesso dice:
Una scarrafunera è un nido di scarafaggi. Ed è qui che rifletto su una somiglianza naturale tra l’uomo e lo “scarrafone”, che non ha nulla a che vedere con i ben noti cliché riguardanti lo schifo, il ribrezzo provocati da questo antipatico essere vivente e più vicina a quanto detto da Joyce in “Dubliners”, o da Dickens in “Hard Times”. L’essere umano, come lo scarrafone, non si percepisce come componente di una collettività, ma si concepisce come principio e fine di un Universo a sé stante, ed in questo continuo affermarsi e prevaricarsi di “ego” ipertrofici crea un movimento spastico, violento, convulso e continuo, pur restando sempre immobile, nello stesso punto. Una pesante immobilità, una irrisolutezza nevrotica, che sembra entrata nella quotidianità, di chi s’illude di conquistare il Mondo, rubando la mela del vicino, mentre lui non è in casa, perché occupato a rubare un’altra mela, ad un altro vicino: magari, proprio a lui. Certo, dopo la mia terribile esperienza mi risulta più diciamo così impegnativo recitare questo scarrafone che riflette e teorizza sulla vita, sulla condizione animale e umana, e soprattutto la morte. Ma il teatro è affascinante proprio per questo, per il modo che ha di congiungere vite e vite, per la capacità di indagare sulle altrui e sulle proprie esistenze, per quanto riesca ad avvicinarci ad altre dimensioni che risultano poi essere molto più vicine di quanto non sembrassero.
Articolo pubblicato il giorno 3 Aprile 2018 - 11:59