Da qualche decennio la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali, con intensità sempre crescente, stanno trovando nella Biologia una alleata preziosa, tant’è che da qualche anno si è cominciato a parlare correntemente di Bio-restauro, Bio-pulitura, Bio-consolidamento.
Insomma, la Biologia è stata messa al servizio dell’arte e della conservazione dei beni culturali, ma non più come l’ancella appartata e negletta di un tempo ma piuttosto come un soggetto attivo e protagonista del mondo dei Beni Culturali – insieme alla Fisica e alla Chimica – le quali l’hanno fatta da padrone dal dopoguerra a oggi.
D’altra parte la Microbiologia che, come si sa, è quella branca della Biologia che studia la vita e la struttura dei microorganismi, si è rivelata un vero e proprio scrigno di tesori biologici utili alla difesa della vita delle opere d’arte e al miglioramento dei suoi “standard” qualitativi di conservazione.
E così si è proceduto, utilizzando ad esempio le caratteristiche di certi microrganismi, come i batteri.
Si tratta, ovviamente, di specie non pericolose per la salute e che posseggono attitudini particolari, quale ad esempio quella di ripulire le patine di sporco che si depositano nel tempo sulle opere d’arte, lasciando intatta e “ripulita” l’opera d’arte.
Oppure quella di produrre sali minerali che vanno a rinforzare le superfici di opere d’arte in marmo, pietra o altro materiale di rivestimento mineralizzato, usato dall’artista come superficie su cui depositare i propri segni d’arte.
Pensate che esageriamo? No, affatto.
La strada è stata tracciata già nella seconda metà del Novecento, nella Inghilterra dei Beatles e dei primi anni ’70, quando due restauratori del Victoria and Albert Museum di Londra intuirono i vantaggi che potevano derivare dall’utilizzazione di particolari batteri.
Essi divennero così i precursori dei bio-restauro, che oggi possiamo scrivere ormai senza trattino: biorestauro.
I nostri due inglesi, nel solco del pragmatismo anglosassone, nei vari convegni specializzati cui parteciparono lanciarono la loro concreta proposta dell’utilizzo del BP, ovvero Biological Pack, un vero e proprio “impacco biologico” da applicare sui marmi afflitti da depositi nerastri detti volgarmente “croste nere” di sporcizia.
Si trattava generalmente di funghi e muffe, che però erano aggrediti dalle colonie di batteri presenti nell’impacco, capaci di “mangiare” quelle croste nere che si formavano (..e si formano), soprattutto in particolari condizioni ambientali, sulle opere d’arte: su statue, su monumenti, sulle pareti scolpite o decorate.
Una quindicina di anni dopo, alle soglie degli anni ’80, anche alcuni biologi americani individuarono in un batterio specifico – dal nome improbabile, che citiamo soltanto per dovere di cronaca – il Desulfovibrio vulgaris – il batterio che elettivamente sembrava il “migliore” per l’impiego nella pulizia del marmo.
Da quegli anni c’è stato un fiorire di iniziative e ricerche per la individuazione dei microrganismi più idonei a “operare” per la “pulizia” e il restauro delle opere d’arte.
Oggi si utilizzano batteri appositamente selezionati per le più diverse e varie loro “attitudini”.
Tante quanti sono i tanti materiali che possono costituire la materia dell’opera d’arte.
Questo perché, tra l’altro, la regola teoretica fondamentale del fare restauro, è stata elaborata già negli anni sessanta in Italia.
Non poteva mancare il contributo dell’Italia in materia di restauro.
Fu l’italiano Cesare BRANDI ad affermare che la regola del buon restauro è una sola e semplice: bisogna intervenire sulla materia che costituisce l’opera d’arte e non sugli aspetti formali che la caratterizzano.
Soltanto per esempio – ma non esaustivamente – citiamo: pietre, marmi, metalli, intonaci, legno, carta, pergamene, conchiglie, lastre e pellicole.
Per ognuno di questi materiali e per i relativi ammaloramenti c’è un rimedio biologico elettivo. Ne esploreremo varietà e caratteristiche.
Federico L.I. Federico
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