Sola e senza soldi, aveva affidato ai servizi sociali l’unica figlia sperando di poterle dare così un futuro migliore. Oggi ha un compagno con un lavoro stabile, ma il tribunale per i minori ha dichiarato la ragazzina, che ha ormai dieci anni, adottabile e le ha già assegnato una nuova famiglia respingendo, sia in primo grado che in Appello, il ricorso presentato dalla madre.
Secondo i giudici, che per ben due volte, hanno respinto l’istanza della donna,la scelta di lasciare la bimba in comunità “fu un atto di abbandono, determinato da una condotta genitoriale gravemente caratterizzata da profonde carenze affettive, di cura, di attenzione e di ascolto, non compensabili da alcuna tardiva resipiscenza” pregiudicando in tal modo e definitivamente la relazione genitore-figlio.
Secondo la tesi portata avanti dall’avvocato della donna, invece, “non fu un atto di abbandono ma un gesto estremo di disperazione e di amore”, nel tentativo di “non far vivere alla figlia le gravi difficoltà economiche che in quel momento stava attraversando, con la consapevolezza di poter superare in breve tempo la situazione e di poter riportare a casa la bambina”.
La vicenda, come riporta l’edizione di Salerno de Il Mattino, inizia nel luglio scorso quando la donna, una quarantenne dell’Agro lasciata dal compagno, padre della bambina, disoccupato e tossicodipendente accompagna la figlia in una comunità sostenendo di non poter più badare a lei. I servizi sociali assicurano i regolari incontri tra la madre naturale e la figlia, incontri interrotti bruscamente quando la minore si confida con gli assistenti sociali raccontando di essere stata in passato abusata da uno zio paterno. La procura apre un’inchiesta archiviata poco dopo: la ragazzina aveva inventato tutto. Per i giudici, però, quelle bugie erano espressione di un disagio e di una richiesta di attenzioni da parte della bambina nei riguardi della madre che, a parere dei giudici, in quella circostanza non avrebbe mostrato vicinanza alla figlia. Per il tribunale dei minori questa è la prova dell’incapacità genitoriale della donna denotata anche dal comportamento della bambina dopo il suo arrivo in comunità: totale mancanza di regole di comportamento, disordine nelle abitudini alimentari e relative al sonno e abitudine a mentire. “Sintomo di un esercizio fino ad allora assolutamente inadeguato della genitorialità e delle cure genitoriali” – secondo il Tribunale. A nulla è valso il richiamo fatto dall’avvocato Denami alla norma dettata dalla Cassazione secondo la quale “il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia ha carattere prioritario”, tanto che nelle situazioni di difficoltà e di emarginazione della famiglia di origine, “il recupero di questa, considerata come ambiente naturale, costituisce il mezzo preferenziale per garantire la crescita del bambino, ed impone ai servizi sociali di non limitarsi a registrare passivamente le insufficienze della situazione in atto, ma di costruire, con gli opportuni strumenti di aiuto e di sostegno, nella famiglia del sangue, relazioni umane significative ed idonee al benessere del bambino”. La madre non si arrende e spera nel parere della Cassazione.
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