Morto un papa, se ne fa un altro. Ma la scelta di un nuovo capo dopo la fine di Totò Riina presuppone l’esistenza di un concistoro. E per ora Cosa nostra, a parte il superlatitante Matteo Messina Denaro, non ha figure carismatiche riconosciute e neppure una cupola, l’organismo di vertice in grado di governare l’organizzazione, decidere le linee strategiche, assegnare compiti e ruoli, gestire traffici, tenere cassa. Dall’arresto di Totò ‘u curtu la mafia ha perso il profilo di una struttura unitaria e verticistica come è stata descritta dal maxiprocesso. Sotto i colpi di una catena di arresti, processi, confische il suo tessuto si è aperto e lacerato.
Questo almeno emerge dalle indagini più recenti che ora cercano di inoltrarsi nei possibili scenari del dopo Riina. Il boss dei boss era da 24 anni al regime del 41 bis. Non era, quindi, in grado di tenere saldamente le fila di Cosa nostra ma una regola antica riconosce il carisma del capo anche quando si trova in carcere. Per questo, dal 15 gennaio 1993, la cupola non è stata più riconvocata. Del resto, chi avrebbe potuto farlo? Non Bernardo Provenzano, figura di grande spessore criminale che doveva pensare soprattutto a proteggere la sua latitanza e dalla latitanza orientare il “nuovo corso” della mafia dopo la fine della stagione delle stragi. Nel 2006 poi è stato catturato. Via via anche gli altri, tranne Matteo Messina Denaro, sono stati arrestati e i corpi intermedi non hanno quindi avuto più la forza di riorganizzare il coordinamento dei mandamenti. Tentano di farlo da almeno 15 anni ma la debolezza strutturale di Cosa nostra ha mandato in fumo tutti gli sforzi.
Prima la morte di Provenzano e ora la scomparsa di Riina hanno creato un vuoto di potere che qualcuno tenterà comunque di riempire. Il primo nome che viene subito accostato alla fase di preparazione alla successione è quello di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante di Cosa nostra. Sarebbe un candidato quotato: appartiene a una generazione più giovane, conosce i meccanismi decisionali dell’organizzazione, ha una visione strategica adeguata. Ma ha almeno due limiti. Uno è la ridotta capacità operativa in conseguenza della forte pressione dello Stato: ogni giorno vengono scoperti suoi fiancheggiatori, collegamenti con l’economia reale, canali di dialogo con il mondo della politica e degli enti locali.
L’altro limite che impedirebbe a Messina Denaro di diventare il nuovo “papa” della mafia viene dal suo radicamento nella provincia di Trapani mentre una regola tradizionale di Cosa nostra, mai derogata, prevede che il capo dei capi sia un palermitano. E poi a Messina Denaro viene a mancare l’investitura del suo predecessore. Lo stesso Riina, intercettato nel cortile del carcere di Opera, lo mette fuori gioco: “Questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa pali (eolici, ndr) per prendere soldi, ma non si interessa di…”. E ancora: “Messina Denaro non combatte lo Stato. Era uno dritto, ma non ha fatto niente. Io penso che se ne sia andato all’estero”.
Se questo è il quadro si comprende meglio la difficoltà di trovare presto un nuovo equilibrio per il dopo Riina. Le osservazioni investigative hanno captato una certa insofferenza della vecchia guardia, sconfitta dalla guerra di mafia e ora pronta a creare le condizioni per il superamento della dittatura corleonese. Perché, come dice il procuratore Francesco Lo Voi, è morto Riina ma Cosa nostra non è scomparsa.
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