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Minuto di silenzio negli stadi per Toto’ Schillaci 

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Un minuto di raccoglimento prima delle gare di tutti i campionati in programma da oggi a tutto il fine settimana. Lo ha stabilito la Federazione italiana gioco calcio per ricordare Toto’ Schillaci, l’ex attaccante della nazionale scomparso oggi all’eta’ di 59 anni.

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Santa Rosalia, scusaci. Fatti da parte. A Palermo, nel quartiere Cep, al numero 4 di via Luigi Barba, le gente prese a frequentare il santuario di San Totò. Schillaci illuminava di magia, coi fari negli occhi spalancati, le notti d’estate 1990.

Una modesta costruzione di edilizia popolare nel cuore di un rione occupato negli anni Sessanta dagli sfrattati del centro storico di Palermo. I genitori di Totò accoglievano i fedeli, discutevano i titoli dei giornali, si beavano di quel figlio d’un’Italia che non c’è più. Ora nemmeno lui c’è più, sconfitto da un tumore.

Al Cep lo piangevano già da un po’: stava male, nessuno crede davvero ai miracoli da quando l’Italia – l’Italia di Totò-gol – quel Mondiale non lo vinse. I lieto fine delle favole, chi li ha visti mai. Brera lo chiamava Turi.

“Turi a dir poco furioso di voglia”. Il 9 giugno 1990 al minuto 74 di Italia-Austria 0-0, si svestì e sostituì Carnevale. Per tre minuti si guardò attorno. Galleggiò, calpestando l’erba appena appena. Trovò un refolo d’ossigeno in area: saltò di testa. E fece gol.

Poi “quel misirizzi tutto nervi e scatti” che Brera avrebbe dettato a braccio al giornale prese a guardare in faccia gli italiani in diretta nazionale, indemoniato lui e il suo sguardo. Una cartolina d’euforia. Persino Andreotti, sugli spalti, fece la ola.

Schillaci I era il miracolo italiano che s’alzava e camminava, una rivelazione cristiana. La riserva d’un tratto titolare. Il fendente che nessuno s’aspettava. Il contraltare di Baggio. Non Carnevale, non Vialli. Totò dal Cep. Vicini se lo portò appreso come un santino, la nazione ne fece un santo. Di quelli un po’ sgualciti, macchiati, come piacciono a noi.

Schillaci si prese l’Italia nel suo tinello più intimo: lo stadio, la casa e la chiesa. Ribaltò, gol dopo gol, i cori che lo seguivano in trasferta, sul fratello beccato a rubare gomme d’auto. Il razzismo da stadio.

Toccava la palla e quella finiva in rete. Era una traiettoria quasi morale, con pochissimi fronzoli. Una di quelle strade dritte che lo sport disegna quando vuol farsi epica. Per sei gol, sei granelli d’un rosario, rapì un Paese raccontandogli una storia viscerale.

Una fantasia. Non c’era il trucco, forse l’inganno sì. Ma a nessuno importava: fu quasi più bello che vincere. E’ la mezza stagione che non c’è più. Ora che è morto, la piangono tutti.

Schillaci è stato quella parentesi, soprattutto. Prima di aprirne altre originalissime, persino incongrue. A 29 anni emigrò in Giappone, al Jùbilo Ywata, un esilio da cartone animato, da Holly. Da San Totò a Totò-san.

“Forse avrei potuto fare un paio di stagioni al Palermo, il sogno della mia vita che non ho mai potuto coronare. Qualche anno fa ho pure provato a comprarmela, la società, ma non se n’è fatto nulla. Si vede che è destino: ho fatto sognare una nazione ma nella mia città non ce l’ho fatta a sfondare.

Pazienza”. Restò in Giappone quattro stagioni, 56 gol in 78 partite. Nel 1999 disse basta e rientrò. Il post-calcio è un pentolone pieno di cose: gestisce a Palermo il centro sportivo per ragazzi Louis Ribolla, e compra l’US Palermo.

Alle elezioni amministrative del 2001 si candida a consigliere comunale con Forza Italia e viene eletto con circa 2.000 voti. Due anni dopo si dimette. Va all’Isola dei famosi. Resta in gioco, ma di lato. E’ in cura alla clinica oncologica La Maddalena quando la mattina del 16 gennaio 2023 viene arrestato Matteo Messina Denaro.

Ma è un incrocio che l’Italia già legge per quel che è: la malattia era un assillo, un orizzonte pesante, da due anni. Le operazioni, la barba ingrigita, il berretto in testa, gli occhi come fessure. Il suo viaggio al termine delle notti magiche.


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